A Melty Kiss lost in the Abyss
2024
Paolo Del Fiol ha sempre dichiarato di tenere Koji Wakamatsu e Hisayasu Sato nel novero delle proprie fonti cinematografiche primarie, ovvero due tra i più illustri esponenti di quel genere che in Giappone si è definito Pinku Eiga (letteralmente “Film rosa”), una mescola, volendo semplificare, di erotismo perverso ed eccessi pulp. A Melty Kiss lost in the Abyss, che Del Fiol ha or ora terminato e che mi ha offerto in visione, concesso che abbia addentellati nelle opere dei succitati maestri nipponici, al sottoscritto ha ricordato, piuttosto, certe magnifiche spericolatezze italiche degli anni Settanta, sul tipo di Il prato macchiato di rosso di Ghione, per intenderci. Anche, sicuramente, per la stramberia “(fanta)scientifica” dello spunto di partenza, ma soprattutto per il modo in cui sesso & efferatezze si avvinghiano con il grottesco, e per la volontà di andarsene costantemente sopra o fuori dalle righe. Un tipo di “filosofia” – si potrebbe obiettare – che non appartiene al solo Del Fiol, ma che nei suoi lungometraggi (Devil Times Two – Quando le tenebre escono dal bosco, 2022) così come nei suoi corti (vedi i segmenti da lui diretti in film collettanei tipo Sangue misto o 17 a mezzanotte – ma ricordo anche un eccentricissimo short slegato, dal titolo La cagna) si arma di uno stile piuttosto inconfondibile.
Al centro di questa nuova storia, per la quale Del Fiol ha coniato l’etichetta “lacrima-splatter”, troviamo un esperimento condotto su alcune giovani donne che manifestano disturbi del sonno: c’è Erika Saccà, Jasmine, attricetta fallita che cerca una via di fuga dalle delusioni tramite una specie di visore 3D, il Meltykiss del titolo, che la proietta nei fondali marini (lo ha creato certo Toto Hernandez); Ilaria Monfardini, Cassandra, è una donna in carriera, afflitta da fame compulsiva; poi ci sono Greta, Francesca Cavallo, ex tossica, e Giulia, Martina Vuotti, una ballerina. Infine Lisa, Fabiola La Gala, nurse presso lo studio psichiatrico in cui un medico e la sua assistente (Paolo Salvadeo e Amira Lucrezia Lamour, sorella di Toto, cioè Del Fiol stesso, che si aggira egli pure nel laboratorio) sottopongono le suddette cavie, inconsapevoli, (Lisa compresa) a un trattamento innovativo per i disturbi del sonno che nasconde, in realtà, tutt’altri fini. Quali, non si sa, ma c’è di mezzo la scomparsa di una ragazza (Omeko, Reiko Nagoshi, cosceneggiatrice con Del Fiol e sua Musa e moglie nella vita) e la prospettiva di fare un mucchio di quattrini con tale nuova scoperta (nelle parole della luciferina Lamour allo psichiatra Salvadeo, che ha più di uno scrupolo). Queste sono le premesse, alle quali tengono dietro le conseguenze dell’esperimento, cioè un tuffo tra i flutti dell’Oceano (proprio in senso letterale, come si capirà al termine), ma prima ancora dentro una marea di stramberie ed efferatezze che colpiscono le sventurate cavie.
C’è solo l’imbarazzo della scelta, tra uno sinistro individuo a torso nudo e con maschera antigas che si materializza accanto a Jasmine e Lisa, i morsi della fame che porteranno Cassandra fino all’autofagia, smanie erotiche notturne e ossa che schizzano fuori dalle gambe durante l’allenamento in palestra per le altre due. Come anticipato, esiste un tortuosissimo disegno occulto messo in atto da quello che pare il più stolto della compagnia, il Toto suddetto, per ricongiungersi con un perduto amore, nel talamo delle distese marine. Ma è un riassunto così, molto a spanne. Del Fiol muove interpreti disinvolte e disponibili (alcune anche al nudo, la Saccà e Fabiola La Gala: quest’ultima, come Francesca Cavallo, fluidificano dai film di Roger Fratter, il quale, oltre a firmare il montaggio del film, si concede anche un cammeo, come marito della Monfardini) e manipola le situazioni sanguinarie con l’ausilio degli effetti speciali di Davide Pesca, che non lesina affatto sui colpi bassi (specie in quel che accade alla monumentale Cassandra). Il “lacrima-splatter” trae senso dall’epilogo, quando il “tenero bacio perduto negli abissi” dischiude il suo segreto e il regista abbraccia, insieme, moglie e lezioni dei maestri nipponici. Io, però, insisto: se Del Fiol fosse nato e avesse agito nei Settanta italiani, sa Dio quel che avrebbe tirato fuori. Altro che il robot succhisangue di Ghione…