A Wounded Fawn
2022
A Wounded Fawn è un film del 2022, diretto da Travis Stevens.
Oggigiorno possedere una Y come secondo cromosoma non è proprio un grande affare, soprattutto fra i quattro lati di uno schermo. È infatti per colpa (o per merito) di quel genietto di Alex Garland se, grazie ad un viscerale e tutt’altro che equivocabile titolo come Men, la ferocissima e, perché no, anche un po’ vendicativa critica alla tossica letalità del più basso e grufolante maschilismo pare essere entrata a doppia gamba tesa nel ventre molle del cinema di genere contemporaneo, regalandoci alcune scomodissime riflessioni su quali siano al giorno d’oggi i rischi più o meno letali nello sfoderare ai quattro venti i propri testosteronici attributi. Che siano i reflussi di un traumatico passato al gusto di thriller di La ragazza più fortunata del mondo, la videoludica rilettura in chiave esoterica dello spauracchio dell’orco cattivo in Run Sweetheart Run, le metaforiche paranoie surrealiste da home invasion del misconosciuto Lucky piuttosto che i cattivissimi giochetti pulp revenge di un instant cult come Una donna promettente, va da sé come il triste e sempreverde mito del maschio Alfa pronto a menare le mani sembri ormai destinato ad avere vitaccia dura, seriamente minacciato da un nuovo plotone di eroine di pixel e celluloide che, anche senza scadere nella stucchevole e moralmente equivoca misandria fantascientifica di Dont’ Worry Darling, sembrano ormai possedere tutte le cinematografiche carte in regola per dimostrare chi realmente porti le brache in casa.
Poi, ecco spuntare una follia come A Wounded Fawn: uno strambo e indecifrabile oggettucolo filmico che, così come l’ingiustamente snobbato Piercing di Nicholas Pesce, sceglie la rischiosissima strada dell’allegoria horror per ricordarci ciò che, molto più semplicemente e fuor di metafora, la dolce mammina non si stancava mai di ripetere a noi infoiati maschietti, ovvero che: “le donne non si toccano neanche con un fiore”. Un’elementare quanto provvidenziale lezione che, forse, il sadico e mentalmente disturbato Bruce (Josh Ruben) sembrerebbe non aver sufficientemente assimilato, impegnato piuttosto a sgozzare ignare pulzelle grazie all’ausilio di un vetusto guanto artigliato, seguendo l’insistente (e chiaramente inesistente) richiamo di una mistica creatura di rosso piumata simile ad una sanguinaria divinità d’altri tempi. Ultima in ordine di sacrificio fra le sue vittime parrebbe dunque essere l’ignara Meredith (Sara Lind), reduce da una relazione tossica e pronta a vivere un tutt’altro che tranquillo weekend di paura in una baita sperduta in una dantesca selva oscura nella quale il nostro invasato killer sembrerebbe deciso a condurla a tradimento. Ma ecco che, dopo un terrificante preambolo che si preannunciava liscio come il sangue sul parquet, la serata parrebbe destinata a volgere al peggio per il nostro immolatore seriale, a causa di alcuni strani ed esoterici eventi forse legati a un misterioso manufatto raffigurante nientemeno che le mitologiche Erinni: le tre spietate divinità femminili che, secondo la leggendaria tradizione, personificherebbero la più cruda e dilaniante vendetta. Tre innominabili Furie che, richiamate alla vita nelle trasfigurate sembianze delle povere sacrificali vittime del nostro sciroccato assassino, parrebbero qualcosa di ben più concreto e letale del semplice parto di una mente malata, ormai sperduta fra allucinazioni da incubo cronenberghiano a budget ridotto e mitologiche epifanie che nemmeno il calamo di un Euripide sotto acido avrebbe mai avuto il coraggio di immaginare.
Dopo quasi un ventennio abbondante passato a spendere e spandere generosi baiocchi per contribuire alla nascita di alcuni succulenti e altisonanti titoli del sottobosco indie horror del calibro di The Thompsons, La casa dell’orrore, Cheap Thrills, La ragazza del terzo piano e il folgorante Jakob’s Wife, quel gran marpione di Travis Stevens ha coraggiosamente scelto di cucinare la sua primissima filmica pietanza grazie A Wounded Fawn, servendoci su di un piatto d’argento nientemeno che una surreale ed orrorifica tragedia greca ben condita con funghetti allucinogeni e una sana dose di truculenza assortita che, sicuro come la morte e le tasse, indipendentemente dai gusti non potrà lasciare certo indifferenti anche i palati più fini ed esigenti. Un autentico delirio audiovisivo senza alcuna remora né controllo che, nonostante un’apparentemente canonica e dichiarata suddivisione in tre atti, si dimostra quasi fin da subito sbracata e incontinente tanto quanto la sete di sangue del suo sciroccato protagonista. Se, infatti, per tutta la prima abbondante orettina, un senso di viscerale e strisciante inquietudine pare serpeggiare dietro ogni sfocata superficie a specchio campeggiante sul fondo dell’inquadratura e dietro ogni tenebroso anfratto pronto a sbucare a tradimento dal fuori campo, ecco che, con lo scoccare degli ultimi lisergici trenta minuti, ecco che il tutto inizia irrimediabilmente a scollarsi da qualunque timido residuo di realtà, trasformando quello che sinora pareva nulla più che un ennesimo trap movie dall’odore sovrannaturale in una visionaria pièce da teatro (greco) dell’assurdo ben condita di abbondante LSD. Mentre, dunque, i ruoli di vittima e di carnefice dimostrano ormai di essersi invertiti, la sciroccata operetta di Stevens getta finalmente la maschera e si rivela per ciò che è: un surreale, incoerente e cattivissimo folk horror a briglia totalmente sciolta sventolante la fiera bandiera del girl power, nel quale ogni cosa, persino l’apparentemente innocuo comignolo di una stufa domestica, così come in un delirio trash alla Mick Garris sembra destinato a vivere il proprio sanguinario quarto d’ora di filmica celebrità.