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ACAB – La serie

2025
REGIA:
Michele Alhaique
CAST:
Marco Giallini (Ivano 'Mazinga' Valenti)
Adriano Giannini (Michele Nobili)
Valentina Bellè (Marta Sarri)

Il nostro giudizio

ACAB – La serie è una serie tv del 2025, diretta da Michele Alhaique.

È risaputo da anni che nei siti neri degli americani i prigionieri venivano torturati con la musica dei RHCP in sottofondo, così come erano sottoposti alla picana argentina, al forced standing e al waterboarding; perciò, sono fermamente convinta che per donare al pubblico una esperienza immersiva il direttore della fotografia della serie ACAB, uscito su Netflix il 15 gennaio, abbia deciso di farci perdere svariate diottrie e a chi scrive, qui, già mancano 8.5 da ogni occhio. Forse è colpa mia, la virata sul nero in ACAB corrisponde al quantitativo di pioggia torrenziale in Suburra (secondo solo a Blade Runner) o, forse, la fotografia di Vittorio Omodei Zorini è una citazione alle opere di Pierre Soulages, e nel caso chiedo scusa. ACAB, famigerato slogan skin eredità degli anni ’70 tornato in auge (diciamo così) dopo gli eventi del G8 2001 e della chiara sospensione dei diritti umani nella scuola Diaz, è una miniserie (avrà un’altra stagione? Chi lo sa) tratta dall’omonimo libro di Carlo Bonini, diretta da Michele Alhaique (Romulos) e prodotta da Stefano Sollima che del libro ne fece un buon film nel 2012. Gli episodi seguono le vicende private e pubbliche, lavorative e affettive, di un gruppo di celerini di Roma alle prese con un lavoro mentalmente e fisicamente logorante. Già nel libro di Bonini e di più nella trasposizione di Sollima, si intuiva la facilità di questi personaggi nello sfogare le personali frustrazioni sul lavoro (quando la prima cosa che dovrebbero insegnare a chiunque è l’opposto) e nella versione di Alhaique non si fa alcuna eccezione.

Durante una operazione in Val di Susa il capo della squadra mobile di Roma, Pietro (Fabrizio Nardi), che mantiene una mentalità retrograda e violenta da ‘noi o loro’, rimane ferito e paralizzato; dall’altra parte della barricata c’è un ragazzo che, brutalizzato dalla squadra dei celerini, finisce in coma mandando la squadra di Roma sotto inchiesta. A sostituire Pietro per riequilibrare i toni esacerbati della squadra arriva Michele Nobili (Adriano Giannini), un riformista che ha già denunciato la brutalità di alcuni colleghi in passato. In questa serie ritroviamo Mazinga (Marco Giallini come nel film) ma abbiamo due nuove entrate parecchio loffie: una irriconoscibile Valentina Bellè nel ruolo di Marta Sarri, una donna e una madre che ha già oltrepassato la crisi di nervi perché reduce da un ex marito manesco; l’agente un po’ ingenuo Salvatore Lovato (Pierluigi Gigante) che per placare la solitudine del celerino si fa raggirare da catfish trovati su internet. La squadra o, per meglio dire, la famiglia, durante l’inchiesta si copre le spalle a vicenda in una nube di omertà e connivenza da cui la mafia dovrebbe solo imparare, impedendo allo Stato di consegnare un agnello sacrificale alla folla indignata. Punirne uno per calmare chi chiede giustizia. Lungo la serie viene detto più volte che esistono due polizie, ma i confini su quale polizia sia quella giusta e quale quella sbagliata non vengono mai chiariti. L’opera di Alhaique strizza l’occhio al film di Stefano Sollima e dialoga meno col libro ACAB che, se letto superficialmente, potrebbe fare venire voglia di liquidare il suo autore come ‘amico delle guardie’. Riletto a distanza di anni il messaggio sembra chiaro: la violenza chiama altra violenza, il problema è a chi spetterebbe spezzare le catene di efferatezze ed entropia? Bisogna fare leva sull’educazione civica del cittadino o su chi ha deciso di mettere la propria vita al servizio dello Stato? E se lo Stato non fosse tuo amico? La miniserie sembra troppo accomodante nei confronti di una manciata di personaggi che non hanno nulla di amabile, stimabile e sono ormai privi di autocontrollo, senza considerare i dialoghi farseschi come l’atmosfera a metà strada tra un quadro di Goya e un film di Paolo Virzì. Risultano credibili, Giallini in primis, come le scuse che i poliziotti usarono per l’irruzione alla Diaz.

ACAB – La serie vorrebbe avere il ritmo delle grandi storie americane o l’introspezione psicologica di Antidisturbios; invece, si ferma in una via di mezzo tra la violenza di Gomorra e le redenzioni improvvise à la Dio vede e provvede, quasi le produzioni italiane fossero bloccate in una triade -ma non di Macdonald- di condizioni necessarie e sufficienti per essere prodotte: preti, nonni e criminalità. La scrittura febbricitante di Bonini, le schegge di Storia che Bonini raccoglie lungo il suo libro con varie pagine di cronaca nera italiana, sono nate dalla frammentazione dell’identità al giro di quel millennio nato col vagito terribile del G8 e due mesi dopo dell’attentato alle Torri Gemelle. Nel luglio del 2001 uscì un disco di musica elettronica per mano del produttore austriaco Fennesz, l’album si chiamava Endless Summer, e leggendo ACAB, così come rivedendo il film di Sollima e molto meno in questa serie, ti sembra ancora di sentire riecheggiare le speranze come i pianti di quell’estate che non finirà mai.