Al progredire della notte
2024
Chiudevo una recensione del precedente film di Davide Montecchi, In a Lonely Place (anno 2016) scrivendo che ne avremmo sentito riparlare, di questo regista riminese, così abile a lavorare sul tempo e sugli spazi e ad impostare il gioco della Verità sull’ossessione della stessa, che sfociava a un bivio, divaricandosi “tra palingenesi o catastrofe”. Al progredire della notte protrae coerentemente, nello stile, quel modo di raccontare che già era stato del primo film, poggiando tuttavia su un ritmo più svelto e mettendo parecchia carne al fuoco nello sviluppo della sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, su un soggetto scritto con Silvia Biagini e Marta Rossi Castelvetro. L’innesto corre persino il rischio di far venire in mente Suspiria di Argento: una ragazza, Claudia (Lilly Englert) alluna, giunta di notte in una stazione ferroviaria, subito dentro un mondo oscuro, che tale resterà fino al compiersi della favola con le prime luci del giorno successivo. Si dice “favola” perché, andando un po’ per sistemi massimi, potremmo ridurre lo schema del film a una Biancaneve che finisce nelle fauci di una strega. E forse per questo può venire in mente il Suspiria anzidetto, con la Englert nei panni di una fanciulla complessata e bloccata dal controllo di una madre incombente, che cerca di affrancarsi dal giogo assecondando il sogno di diventare attrice: per questo è giunta in mezzo al Nulla, onde frequentare un corso di sopravvivenza nei boschi, come da indicazioni di un mentore (voce telefonica e incombente, come quella della madre), dal quale si scoprirà essere stata messa incinta. La “Strega” è una donna, Letizia (Lucia Vasini), presso la quale Claudia ha trovato alloggio per quella notte: una signora che si presenta gentile ed empatica e che nel salotto buono di casa tiene una radio old style, tramite la quale sostiene di comunicare con il mondo dei morti e degli angeli…
La metafonia è il punto trigger della faccenda ma non il solo. I segnali dall’aldilà si saldano a oscuri pregressi che la tremebonda protagonista va scoprendo dentro la casa di cui è ospite e nei cui anditi si nascondono tracce del passato di Letizia, lungo stanzucce, scivoli e altre difformità architettoniche, custodi dei segreti. A Montecchi riesce bene cesellare sull’inquietudine che aumenta col progredire della notte, man mano che Claudia cerca di mettere insieme i frammenti di un puzzle che contempla un’arcana setta con a capo uno studioso, Leo Servadio (Pier Sandro Freglio), convinto che tra il mondo dei morti e il nostro il varco sia pervio, tramite quella ianua diaboli che per Tertulliano era il ventre della donna, tormentati sogni analogici che si mescolano a brani delle concioni del Servadio trovate in rete e, infine, la figura di una ragazza in carrozzina, occultata da una maschera, Clara (Ioana Laura Jitariuc), errore (in tutti i sensi) giovanile di Letizia e di chi ebbe a fecondarla per vie, diremo così, assai poco ortodosse. L’impulso, anche solo intuita la malparata, sarebbe di fuggire via da lì a gambe levate e difatti Claudia ci prova (in sequenze che sarebbero piaciute al Dario Argento dei tempi che furono), ma viene riacciuffata dalla strega. E da qui, quello che andrà accadendo lo si tace, perché sarebbe peccato mortale raccontarlo. Diciamo solo che il mondo dei vivi e quello dei morti, prima che la notte finisca, saranno sul punto di congiungersi.
Il peggior torto che si può fare al film di Montecchi è di ridurlo al noto, ovvero di interpretarlo come un fitto reticolo di citazioni da questo o da quell’altro classico della tradizione horror-mistery. Il fatto che siano in gioco degli archetipi, la favola è uno, il feticcio della mater terribilis un altro, la tensione a vincere le pastoie della psiche e prima ancora dell’educazione, un altro ancora, non leva che Al progredire della notte basti a spiegare se stesso, senza bisogno di evadere dal perimetro di quel che già In a Lonely Place aveva ampiamente dimostrato essere la comfort zone del regista. Ora come allora, il lavoro sugli interpreti (sia la Englert sia la Vasini mettono benissimo in moto dal profondo quanto è richiesto ai loro caratteri) è il punto di Archimede su cui far leva; ora come allora una luce crepuscolare e, meglio, sepolcrale impregna la scena e determina, ora come allora, che ambienti e atmosfera sfoderino gli artigli e fomentino inquietudine, ancor prima dei fatti. L’aspetto della comunicazione transdimensionale – stranamente pressoché ignorato dal cinema – rivela per chi sia un minimo addentro all’argomento riferimenti precisi e ricercati, a cominciare dal cognome Servadio, mutuato da quello di Emilio Servadio, decano degli studi metafonici in Italia. E l’idea che siano le emozioni dei vivi una sorta di pastura per i trapassati, un’esca che li attira nell’aldiqua porterebbe a conseguenze ancora più inimmaginabili di quelle già abbastanza spaventose che Montecchi (evidentemente ben cognito di scienze sottili, altrettanto quanto dimostra di conoscere le discipline psichiatriche) illustra nel suo film. Che merita di vedere spezzate molte lance a suo merito, non ultima quella di rivelarci della setta delle Nove sale, scaturigine delle diavolerie, il poco che basta saperne perché se ne resti turbati.