Alice Was My Name
2021
Alice Was My Name è un film del 2021, diretto da Brace Beltempo.
Parlare di cinema indipendente italiano significa addentrarsi in un campo minato, dove si trovano le peggiori ciofeche accanto a gioiellini nascosti: motivo per cui, serve una particolare capacità di discernimento, per evitare le trappole dei tanti (troppi) film amatoriali. Il trailer di Alice Was My Name, horror/thriller diretto da Brace Beltempo, aveva attirato la nostra attenzione per la fotografia vintage dal gusto cinematografico non comune e per la violenza insistita: così, non ci siamo fatti scappare l’occasione di vederlo, fresco di distribuzione su Amazon Prime (ma si trova anche in Dvd), ed è stato un colpo di fulmine. Cruentissimo, disturbante, nichilista ai massimi livelli, e girato come si deve (cosa non comune negli indie italiani), possiamo azzardarci a dire che è il nuovo Morituris del cinema horror nostrano, anche se – per ora, ma diamogli tempo – non sta facendo parlare di sé come il film di Raffaele Picchio, che all’epoca (2011) aveva fatto scalpore per il mancato nullaosta della censura. Beltempo è un regista che proviene dal sottobosco underground, è uno che si è fatto le ossa a suon di video, e che nel genere in questione si era già distinto per aver diretto l’altrettanto violento The Carpenter’s House e un episodio del collettivo POE 4: The Black Cat. Con Alice Was My Name, il regista si getta a capofitto nel puro filone del rape & revenge, con la struttura classica – stupro e vendetta – che contraddistingue alcuni classici come L’ultima casa a sinistra e soprattutto Non violentate Jennifer, al quale il film di Brace sembra ispirarsi in modo particolare. Beltempo scrive la storia insieme a Lisa Rovo, incentrandola su Alice (Melissa Di Cianni), una giovane aspirante attrice che gira da un provino all’altro senza successo, in cerca della grande occasione che le permetta di svoltare. Un’occasione che sembra arrivare quando un fotografo la convoca in un’abitazione, facendole credere di avere un progetto in serbo per lei: in realtà, l’uomo fa parte di una cricca di farabutti depravati che girano snuff-movie, quei famigerati film dove la protagonista viene violentata e uccisa per davvero.
Dopo essere stata picchiata e stuprata selvaggiamente da due uomini, Alice viene portata in un bosco per essere uccisa e sepolta, ma riesce a fuggire. Una volta ripresasi dallo shock, trasforma il dolore in rabbia, e pianifica scientificamente la sua altrettanto feroce vendetta, uccidendo uno alla volta i quattro uomini responsabili. Una trama semplice, essenziale, magari anche già vista, ma girata in un modo sorprendente per il cinema italiano di oggi, con una diegesi “sporca” e lontana da quel fastidioso coté accomodante che tante volte riveste anche il genere horror. Beltempo non fa sconti, ci butta in faccia una violenza esasperata e disperata, realistica e sanguinaria, lontana da quella deriva pulp che oggi va tanto di moda, e sa girare come si deve: una regia quadrata, senza fronzoli, e con una cura tecnica di alto livello, nonostante non si tratti di una grossa produzione. Visivamente, colpisce innanzitutto la fotografia: un’immagine marcatamente cinematografica, dai colori corposi e saturi, e con un gusto volutamente vintage che tanto ricorda il cinema – americano e italiano – degli anni Settanta. Basti vedere la prima sequenza in flashforward, quando Alice (una bravissima Melissa Di Cianni, dall’espressività straordinaria, su cui bisognerà tornare) si aggira ferita e scioccata in un bosco, mentre la sua voce fuori campo ci parla del dolore e della morte, con discorsi fuori da ogni retorica. Tornati al presente, Beltempo esaurisce presto i convenevoli, per portarci insieme alla protagonista nella casa degli orrori, circondata da luci rosse primarie e abbaglianti in stile Tulpa: due bruti – il capo e un altro che sembra Bob di Twin Peaks – la stuprano, mentre altri due volti patibolari – un vecchio e una specie di metallaro – guardano compiaciuti e filmano. Nulla è lasciato fuori campo nello stupro (motivo per cui si tirava in ballo Morituris), in una scena disturbante di insistita violenza che non vedevamo da anni nel cinema italiano: i due uomini la violentano davanti e dietro, mentre le loro espressioni folli si alternano alle strazianti urla di dolore di Alice, il cui volto virginale e martirizzato ricorda quello di Désirée Giorgetti nel film di Picchio o quello di Camille Keaton nel film di Meir Zarchi. Tutto circondato da una luce rossa abbacinante, e sottolineato da una musica stridente e ossessiva – perché Alice Was My Name è un po’ come The Driller Killer di Abel Ferrara, va ascoltato ad alto volume, visto che le urla e i suoni hanno un’importanza primaria.
L’esordiente Melissa Di Cianni, se da un lato è un po’ acerba nei momenti di dialogo, dimostra una bravura commovente nelle scene di sofferenza, con una mimica facciale che parla da sola: tanto nel dolore dello stupro, quanto nello shock successivo, quando vaga nel bosco in stato catatonico, mentre due lacrime le solcano il viso, e quando poi si mette nella vasca da bagno sotto l’acqua, in posizione fetale, per cercare di riprendersi, con le note gravi e malinconiche a sottolineare lo stato d’animo – Alice Was My Name è un film che fa tremendamente male, non è un horror da guardare a cuor leggero. Così come è ferocissima, e per niente catartica, la vendetta successiva di Alice, quando il suo volto martirizzato diviene foriero di morte (“Alice era il mio nome”, dicono il titolo e lei stessa, come se fosse diventata un’altra persona): quattro carnefici, quattro vittime, uccisi ad uno ad uno spietatamente, mentre a sua volta la ragazza filma tutto. Per primo tocca al fotografo che l’aveva avvicinata, a cui mozza la lingua con una forbice e le parti basse con una mannaia, lasciandolo morire dissanguato. Poi a suo padre, il vecchio che l’aveva lasciata fuggire nel bosco, forse in un momento di pietà, e al quale riserva una morte altrettanto pietosa, con un proiettile in fronte. Infine, il metallaro e il boss, uccisi con un trapano che lacera le carni in un delirio di sangue, mentre le urla e i suoni stridenti fanno male ai timpani. Entra poi in scena un altro losco figuro (il produttore degli snuff-movie) che dà vita a un finale inatteso, particolarmente cinico e crudele. Alice Was My Name possiede alcune imperfezioni – la protagonista e i comprimari sono più bravi nelle sequenze di stupro e di morte piuttosto che nei dialoghi, così come alcune scene (vedasi il panorama innevato) potevano essere accorciate – ma ci si sorvola volentieri sopra, visto il quadro violento e nichilista di orrore immanente che ne viene fuori. E la sequenza con Alice che si muove al ralenti di fronte a un monumentale cimitero, come una vampira in un film di Jess Franco o Jean Rollin, armata di trapano e videocamera, è un instant-cult di valore assoluto.