American Fable
2016
American Fable è un film del 2016, diretto da Anne Hamilton
“Nessun posto è bello come la propria casa” sentenziava allegramente Judy Garland ne Il mago di Oz. Ma cosa succede quando il sacro focolare domestico e coloro che vi risiedono vengono minacciati dalle infide spire della speculazione edilizia? È proprio da tali premesse che American Fable origina la propria materia narrativa, trasportandoci in un crudo e afoso thriller rurale ancorato negli ambigui e insidiosi anni Ottanta, quando le terribili e inaspettate conseguenze del neoliberismo reganiano misero in ginocchio intere famiglie di agricoltori americani, costrette a svendere le proprie fattorie per evitare di essere strangolate dal giogo del debito. È dunque all’interno di questa difficile situazione che la giovane e spensierata Gitty (Peyton Kennedy) si trova a vivere, immersa in uno spiccato amore per le fiabe e gli animali mentre la sua famiglia lotta disperatamente giorno dopo giorno per salvare i propri possedimenti dalle avide grinfie degli esattori bancari. Durante uno dei consueti pellegrinaggi fra i campi la ragazzina s’imbatte casualmente in uno strano uomo (Richard Schiff) rinchiuso in un silos con il quale instaura una graduale amicizia e che si rivela essere un ricco magnate responsabile dell’acquisizione della maggior parte delle fattorie della contea, probabilmente finito al centro di un oscuro piano ordito dagli abitanti della zona che potrebbe coinvolgere direttamente gli affetti più vicini all’ingenua undicenne.
Se per caso a qualcuno fosse scattato il campanello del già noto, nessun problema, è più che normale, in quanto la pellicola diretta da Anne Hamilton possiede analogie tematiche davvero impressionanti con il celebre romanzo Io non ho paura di Nicolò Ammaniti (da cui Gabriele Salvatores avrebbe tratto nel 2003 l’omonimo film), incominciando dall’ambientazione rurale – traslata dalle campagne pugliesi all’Est agricolo statunitense – e dall’improvvisata e spontanea amicizia sbocciata fra un innocente e la vittima di un rapimento – in questo caso non motivi legati alla mafia ma per interessi edilizi –, partorendo un racconto di formazione ricco di suspense nel quale la dura banalità del quotidiano costituisce la molla propulsiva dell’agire spietato e omertoso dei personaggi. Non si tratta dell’American Pastoral di Philip Roth, bensì di un’American Fable quella che delinea il micro-universo della storia.
Ed è proprio attraverso l’ossessiva magia del racconto fiabesco che la pura Gitty si trova a filtrare gli stani accadimenti che la circondano, incapace d’intuire sino in fondo l’orrore che le si sta perpetrando attorno e che viene subliminarmente suggerito dall’inquietante follia psicopatica manifestata dal fratello maggiore Martin (Gavin MacIntosh), la quale tuttavia continua ad apparire agli occhi innocenti della giovane nella forma di un’allegoria che sembra evocata direttamente dalle iconografie de Il labirinto del fauno di Del Toro. Coagulando suggestioni che provengono tanto delle perturbazioni adolescenziali di Riflessi sulla pelle quanto dalle rugginose e oscure vicende dell’America di frontiera protagonista di True Detective la Hamilton compone un lucido e spietato saggio su come l’incanto infantile possa costituire spesso un’ancora di salvataggio contro il progressivo degrado di una società disposta veramente a tutto per salvare dal baratro quel poco che ancora le resta, rimanendo illusoriamente aggrappata a un barlume di corrotta dignità pagata a caro prezzo.