American Murder
2020
American Murder – La famiglia della porta accanto è un docu-film del 2020, diretto da Jenny Popplewell.
Nel mare nero dei true crime, la vera grande novità degli ultimi anni, ogni tanto qualcuno si distingue: è il caso di American Murder, girato dalla regista Jenny Popplewell e distribuito da Netflix con il sottotitolo La famiglia della porta accanto. La storia è scabrosa e sconosciuta in Italia: tutto inizia il 13 agosto 2018 con la scomparsa di Shanann Watts, una ragazza di 34 anni, che svanisce dalla sua casa di Frederick, Colorado, insieme alle due figlie piccole. A dare l’allarme è un’amica preoccupata perché la donna non risponde, e ad aprire la porta di casa è il marito, Christopher Watts. Mentre la polizia riflette sull’allontanamento volontario o la possibilità di una tragedia, in breve l’uomo diventa il primo sospettato. D’altronde, come in ogni caso che si rispetti, l’ombra si allunga sempre sul marito. Fin qui tutto “normale”. O meglio, seppure nell’eccezionalità delle circostanze, la materia narrativa del mistero è molto stereotipica: c’è la classica famiglia perfetta (porta accanto, appunto), la donna che sparisce con le figlie, il coniuge che viene attenzionato. Dai primi fotogrammi però interviene una novità che sabota la natura del genere: American Murder è un found footage, ovvero un film quasi interamente assemblato con immagini esistenti.
Non troviamo la consueta ricostruzione ex post, con l’intervistato che parla in camera in campo medio (o peggio ancora le talking heads, le teste parlanti) e le immagini di copertura girate dopo i fatti, in modo più o meno banale a seconda del regista. Un esempio discutibile è l’ultimo celebrato Cyber Hell, true crime coreano di Jin-sung Choi, che ricostruendo una storia di pedofilia informatica riempie lo schermo di numeri e dati a cascata fino allo sfinimento. Qui invece no: il film si affida a registrazioni “vere”, che riportano lo svolgersi degli eventi in presa diretta. Com’è possibile? Da una parte ci sono le telecamere della polizia americana, che gli agenti sono tenuti ad indossare nella divisa e dunque registrano la prima chiamata per la scomparsa di Shanann, con l’arrivo di Christopher e l’ingresso in casa (“Qui è troppo pulito”). Dall’altra c’è il carattere della stessa Shanann, molto attiva su Facebook, che tende a registrare la vita della famiglia e delle bambine passo dopo passo, evidentemente affetta dalla sovraesposizione dei social e dalla auto-scrittura di se stessi, tipica dell’oggi, per cui la vita è tutta meravigliosa e si ama il proprio lavoro. Legittimo, naturalmente, e perfettamente calato nel contemporaneo così come la povera ragazza, che vuole amplificare le luci e nascondere le ombre.
In più vengono inscenati graficamente i messaggi tra lei e le amiche, in cui si lamenta della scarsa attenzione dell’uomo e della carestia sessuale, a contorno ecco gli interrogatori di Chris che finisce alla sbarra. Così facendo si forma il found footage: non la ricostruzione dell’indagine col senno di poi, ma la registrazione di essa mentre avviene, nell’attimo stesso in cui si svolge, davanti ai nostri occhi. American Murder diventa così il racconto di un falso idillio, come finte sono tante coppie, puntellato da alcuni segnali sempre più inquietanti, tra tutte l’ossessione del marito per la forma fisica, quando inizia ad allenarsi in modo compulsivo. E gatta ci cova sempre, è la natura umana, una natura maligna… Ma non solo. Ferma restando la lettura contro la violenza sulle donne, con Christopher che ne uccide non una ma tre, c’è dell’altro: è anche un film sull’oscura socialità del nostro tempo, sulla tendenza irresistibile a registrare tutto. Un film sconcertante che tutto sommato non stupisce: nell’epoca dei selfie e dei video di se stessi, del narcisismo e dell’autoconvinzione, non c’è niente di strano nel riprendere la caduta nell’abisso.