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American Primeval

2025
Titolo Originale:
American Primeval
REGIA:
Peter Berg
CAST:
Taylor Kitsch
Betty Gilpin
Dane DeHaan

Il nostro giudizio

American Primeval è una serie del 2025, creata da Mark L. Smith.

Sono arrivato a credere che queste terre siano in possesso di grandi forze, contro le quali noi uomini civilizzati non possiamo difenderci. Queste terre penetrano dentro di noi, nelle nostre ossa, nel nostro sangue e poi ancora più in profondità, occupando la nostra anima. Queste terre si animano dentro di noi, vivono di potere, vivono di violenza, vivono di chiarezza di spirito e di molte altre grandi sensazioni che finora sono sfuggite alla nostra lingua. Di fronte a tali forze mi scopro a non provare alcuna emozione se non una grande umiltà.

È in queste illuminanti parole, crediamo, che risiede il cuore di American Primeval, miniserie Netflix in 6 episodi, ideata e scritta da Mark L. Smith (autore dello script di Revenant), diretta completamente dal Peter Berg di Lone Survivor. A pronunciarle è il capitano Edmund Dellinger (Lucas Neff) dell’esercito degli Stati Uniti, personaggio molto sensibile alle emozioni, nonché a ciò che è vagamente palpabile nell’aria. Ed è in ciò che non possiamo percepiamo direttamente che si cela l’anima viscerale di questa lunga e concitata corsa attraverso un West selvaggio e ostile come le montagne innevate di Revenant, oppure come le impervie e aride lande afgane di Lone Survivor. Il selvaggio stato dello Utah di American Primeval è una terra di montagne e valli affascinanti e al tempo stesso terribili: l’orrore e la meraviglia, la crudeltà e la bellezza, il mistero più inconoscibile e la fisicità più concreta, sono polarità intimamente connesse all’essenza di quei luoghi e alla vicenda raccontata nella miniserie si Smith e Berg.
La trama è presto detta: Sara Rowell (Betty Gilpin), in fuga col figlio dodicenne Devin, da una taglia messa sulla sua testa a causa dell’omicidio di un uomo che maltrattava entrambi, arriva a Fort Bridger, ultimo avamposto di civiltà, nel selvaggio territorio dello Utah. Qui si unisce ad una piccola carovana di mormoni, per cercare di arrivare infine a Crook Spring, località che si trova oltre le montagne, dove risiede il marito, nonché padre di Devin, che non vede da quando era incinta. Il drappello, di cui fanno parte Jacob Pratt (Dane DeHane) e la moglie Abish (Saura Lightfoot-Leon), si trova però coinvolto in un terribile massacro, compiuto dalle milizie dei mormoni ai danni di una carovana di 200 pionieri, provenienti dall’Arkansas, che attraversavano le “loro” terre senza permesso. Incappucciati in grigio, quasi come antesignani del ku-klux klan, aiutati dagli indiani Paiute, i mormoni fanno ricadere le colpe sugli indiani Shoshone, capeggiati dal rinnegato Penna Rossa (Derek Hinkey). Sara e Devin, sfuggiti miracolosamente all’ecatombe, troveranno nel taciturno trapper Isaac Reed (Taylor Kitsch), una guida e una protezione nel difficile viaggio che li condurrà attraverso montagne innevate, braccati da perfidi cacciatori di taglie, catturati da bande di crudeli Cajun, fino alla meta finale. Anche Jacob Pratt, ferito in modo orribile, scampa al massacro dei mormoni e, col paradossale aiuto degli stessi responsabili dell’eccidio, si metterà sulle tracce della moglie Abish, anche lei sopravvissuta, finita nelle mani degli indiani. Nel frattempo i mormoni, capeggiati dall’ambiguo e carismatico Brigham Young (Kim Coates), faranno di tutto, compreso versare altro sangue, per cancellare qualsiasi collegamento tra loro e la strage dei pionieri.

Va però aggiunta un’altra coordinata al quadro complessivo: il massacro compiuto dai mormoni è realmente accaduto, l’11 settembre 1957, nella selvaggia località di Mountain Meadows. Tale atto rientrava nella cosiddetta Guerra dello Utah, che vide contrapposti le legioni dei mormoni, che colonizzarono il selvaggio stato in questione, da essi considerato come loro esclusiva terra promessa, e il governo degli Stati Uniti. In tale clima, i mormoni, guidati dal fanatico razzista Brigham Young, non gradivano affatto la presenza di nuovi coloni nei loro territori. Il vescovo mormone John Lee, spacciandosi per ministro degli affari indiani, convinse i pionieri della carovana Baker-Fancher, stanziata brevemente in quelle terre per rifornimenti, a deporre le armi, per poi farli massacrare dalle sue milizie, aiutate dagli indiani Paiute, pagati come mercenari. Furono uccise 120 persone, compresi donne e bambini. Solo dopo 20 anni John Lee fu processato e fucilato.
La serie di Smith ipotizza una responsabilità anche da parte di Brigham Young, che autorizzò indirettamente la strage e ordinò l’insabbiamento successivo: cosa che, almeno nell’ambito della serie, si risolve in ulteriori omicidi e stragi. Se da un lato la trama si concentra sul viaggio di Sara e del figlio, dall’altro tocca la Storia, tramite il personaggio dello stesso Brigham Young che, nella sua doppiezza e ipocrita malvagità, evoca i fantasmi del peggior fanatismo religioso di The Witch, o di La lettera scarlatta. A lui si contrappone la pragmatica e rude schiettezza di Jim Bridger (Shea Whigham), proprietario del forte omonimo, ultimo baluardo di buonsenso, contro la follia fanatica del predicatore. In questo conflitto e nella ossessiva ricerca della moglie da parte del traumatizzato Jacob Pratt, incarnato da un sempre più allucinato Dane DeHaane, si consuma l’arco narrativo più storicizzato di American Primeval, in cui trovano spazio i conflitti tra i mormoni e l’esercito, nonché tra gli indiani, su cui si vorrebbe far ricadere la colpa della strage, e la cosiddetta civilizzazione bianca. Non ci sono buoni e cattivi in tale contesto, ma soltanto diverse sfumature di grigio.
Attraverso le incredibili e terribili vicende di Sara, protetta dal signor Reed (un Taylor Kitsch taciturno ed efficace), si sviluppa un vero proprio survival movie, perfettamente nelle corde della scrittura di Smith e della muscolare regia di Berg. Questa si concretizza nello spettacolare piano-sequenza della strage di Mountain Medows, girata con un grandangolo estremo e con macchina da presa a mano, o più probabilmente montata su un supporto mobile che, non possedendo la fluidità di una steady, restituisce il frenetico parossismo della battaglia più selvaggia, pur conservando una certa stabilità che permette una corretta fruizione visiva. Così il resto della serie prosegue per dettagli visivi, intimi e stretti nel teleobiettivo, e con aperture grandangolari, che rimangono comunque addosso ai personaggi, facendocene annusare le emozioni e gli odori. Le peripezie di Sara e del figlio, accompagnata dal rude Reed e da una coraggiosa quanto silente ragazza indiana, dà modo alla donna di evolvere come personaggio e allo spettatore di ritrovare nella bravissima Betty Gilpin, la stessa spietata determinazione della combattiva Crystal dell’ottimo survival The Hunt (2020).

Di primo acchito la carne al fuoco sembrerebbe tanta e i due filoni, quello survival e quello bellico-storico, dopo una partenza in comune, da un certo punto in poi proseguono in parallelo, disgiungendosi sempre più. In questo possiamo rilevare, se vogliamo, una debolezza della serie. Ma le redini dei due racconti sono tenute ben salde da Berg, che trova nel rude e affascinante paesaggio dello Utah un denominatore comune delle vicende, nonché un rispecchiamento delle emozioni che albergano negli animi dei personaggi. Anzi, come si diceva all’inizio, forse è vero il contrario e cioè che sono quelle terre pure, incontaminate e terribili, impregnate forse di potenze ancestrali e irriducibili alle categorie umane, a trarre dal cuore degli uomini ciò che di più ferino, selvaggio e puro si trova in essi. Si parla chiaramente di una purezza non dal punto di vista morale, ma nel senso di una naturalità nell’agire e nel sentire, scevra delle sovrastrutture della civiltà. Le parole del diario del capitano Dellinger, di cui abbiamo riportato un estratto all’inizio, sembrano voler dare un senso alle stragi e al male compiuto, trovando nella bellezza e nella rudezza della Natura, se non una ragione, almeno una matrice, al tempo stesso trascendente e immanente, ai terribili eventi cui assistiamo.
Di primissimo livello, American Primeval fa il paio con un’altra ottima serie di qualche anno fa, Godless (2017), grazie alle quali Netflix sembra aver trovato una felice oasi western nell’oceano di pessima offerta che riempie la sua piattaforma. D’altro canto la serie di Smith e Berg rientra a pieno titolo in quel western viscerale che, con film come Bone Tomahawk (2015) e Hostiles (2017), sta rinverdendo il genere, pompandogli nelle vene massicce dosi di survival, efferatezze, regia concitata e temi che si richiamano all’odierna agenda setting dei media attuali. Considerando anche la presenza sugli schermi cinematografici del 2024, della prima parte di Horizon, la saga di Kevin Costner, possiamo dire che il western, in quanto perpetuo serbatoio mitopoietico del cinema americano, è più vivo che mai.