Anche se volessi lavorare che faccio?
1972
Anche se volessi lavorare che faccio? è un film del 1972 diretto da Flavio Mogherini.
Il comune di Sovana, adagiato fra le morbide vallate della provincia di Grosseto, venne chiamato Suana dai Romani, dopo la loro conquista del territorio di Vulci nel 278 a.C. Ma codesto nome ha origini ben più antiche: il termine suddetto, infatti, deriva dall’etrusco “suf” che significa “terra verde”. Ed è proprio qui, in questa terra sospesa nel tempo, in questo reticolo di sghembe pietre medievali, dominio di piante rampicanti e catacombe in attesa d’esser profanate, che lo scenografo Flavio Mogherini scelse d’ambientare la propria opera d’esordio, cioè quell’ufo di Anche se volessi lavorare che faccio? (1972), che davvero è oggetto filmico sfuggente, inclassificabile, scientemente eccentrico. Nell’anno del Grandangolo (La classe operaia va in Paradiso, Mimì metallurgico ferito nell’onore), del Mitra (Milano calibro 9, La polizia ringrazia) e del Pugnale (Non si sevizia un paperino, L’etrusco uccide ancora), il raffinato Mogherini, sodale di Blasetti, di Camerini, di Bava (sue le scenografie di Diabolik) e di Pasolini, sceglie gli spazi imbevuti di Storia dell’alto Lazio ove inscenare una picaresca pochade nel sottobosco dei tombaroli, mischiando, in un cocktail non sempre perfetto, il riso alla malinconia, la propensione al bozzetto col dramma sociale.
Ma questa sorta di “aritmia” narrativa diviene quasi un peccato veniale, viste le gioie che, comunque, Anche se volessi lavorare che faccio? ci offre. In primis il cast da urlo: anche con anni di “cinefilia coatta” alle spalle, si resta ammutoliti nel vedere la giunonica Francesca Romana Coluzzi nei (succinti) panni di una virago sordomuta affascinata dallo scudiscio; non si può che batter le mani dinanzi alla urticante performance di Vittorio Caprioli, immenso nel dipingere il personaggio di “Due Novembre”, subdolo trafficante di reperti archeologici nonché temutissimo iettatore; e che dire di Luciano Salce, finanziere con irresistibile accento veneto? E dell’immancabile Tiberio Murgia? E degli occhioni sgranati di una deliziosa Adriana Asti?
Ma ad accarezzare questa compagnia d’attori in gran spolvero, a donare alla pellicola una patina di stralunato lirismo, ecco giungere lo “sguardo” di Mogherini, scenografo impagabile: è grazie a lui se la banda di tombaroli si ritrova, nottetempo, a progettar crimini tra le ombre inquiete di un Museo delle Cere, o se la Guardia di Finanza trova “temporaneo” rifugio in una domus romana in via di restauro… É nell’ ”alterità” di questi spazi inusitati che si dispiega la “magia” dell’opera prima di Mogherini, senza ombra di dubbio uno degli artigiani (in senso nobile) più sottovalutati del nostro cinema.