April
2024
April è un film del 2024, diretto da Dea Kulumbegashvili.
Un corpo deforme e mostruoso inaugura questo titolo, April di Dea Kulumbegashvili, che ha vinto il Premio speciale della giuria al Festival di Venezia. Una percezione disgustosa di sé con cui la protagonista del film, Nina (Ia Sukhitashvili), deve quotidianamente confrontarsi. Lavora come ostetrica in un ospedale della provincia georgiana e pratica aborti clandestini in piccoli paesi isolati, contravvenendo a ogni regola, scritta e non scritta, che controlla il corpo delle donne in una società retrograda. Un corpo trasfigurato dal peso dei sotterfugi, dov’è il rigore ideologico convive con il costante timore di essere scoperta; un corpo di donna che convive anche con lo stigma della gravidanza mancata e con la sessualità confinata in spazi angusti e violenti; un corpo sottoposto a estrema violenza sociale, ma che richiama anche il disfacimento causato dalla bomba atomica. Il film, pur parlando di uno specifico contesto geografico e culturale, si apre a una lettura universale, lucida e spiazzante, del ruolo del corpo femminile nella società, così ben rappresentato dall’interpretazione richiesta a un ventre, che per lunghi minuti si contrae sotto i ferri necessari per un aborto in casa.
Il dolore del corpo femminile è protagonista assoluto, dal parto vaginale con cui si apre a quello cesareo con cui si chiude, nella sua versione distorta così come nel corpo non più giovane della protagonista, un filo rosso che è il dover sostenere il peso fisico, sociale e psicologico della maternità, da cui invece gli uomini sono esenti. Ed ecco, a contrappunto di ciò, un corpo maschile nudo, inerme, pacifico, il pene a riposo. La quiete in contrapposizione al travaglio, che esplica la verità indicibile alla base del dominio del maschile sul femminile basato sulla manifestazione del sesso, il segno inalienabile del possesso e del peccato originale: la gravidanza, in questo film drammaticamente strumento di controllo. L’inevitabilità di questo destino per il genere femminile è sottolineata anche da immagini apparentemente inerti, come campi di papaveri, fiori di pesco, un mercato notturno di vacche, dove gruppi di uomini si aggirano e spingono, trasponendo lo stesso atteggiamento dominatore che li vede inseminatori di mucche sulla donna che ha penetrato il loro ambiente. Questi elementi naturali, fiori e mucche, richiamano l’impossibilità di sottrarsi al meccanismo riproduttivo che rispecchia quello delle donne in così tanti differenti contesti.
Lunghi piani che mettono alla prova lo spettatore accompagnano la protagonista nel suo lavoro per restituire una realtà fondante delle differenze e purtroppo anche delle violenze che vengono perpetrate tra i generi. Questa lentezza ci porta anche nella riflessione costante di Nina sulla giustizia del mondo in cui si muove, pensieri sottovoce rispetto a importanti azioni, come consegnare pillole anticoncezionali, un gesto di premura che se scoperto può costare la vita. L’atteggiamento e le parole di Nina spiazzano gli uomini intorno a sé per la lucidità con cui li mette a fronte della verità delle donne. La disorientante tranquillità con cui offre una fellatio a un autostoppista viene ricambiata da un duro colpo alla testa quando lei chiede di poter ricevere lo stesso. Quale immagine è più chiara di un rapporto di subalternità interiorizzato in tantissime società, dove la donna non può osare chiedere nulla di pari a ciò che riceve l’uomo in automatico? A questo si unisce la vocazione alla cura e al sacrificio, altra caratteristica propria (o imposta?) della femminilità: “Nessuno vuole praticare aborti. Ma qualcuno lo deve fare”, risponde al collega che le chiede di pensare alla sua carriera. “Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. Un semplice grido disperato.