Babadook
2014
Babadook è un film del 2014, diretto da Jennifer Kent.
Il decennio della crisi ha spinto il cinema dell’orrore a tornare alle narrazioni a circuito chiuso casalingo. Le presenze di Paranormal Activity, i residui di memoria al sangue di Sinister, le insicurezze omicide di Oculus, le possessioni di The Conjuring, le invasioni sociali di La notte del giudizio e le epidemie su base condominiale di [Rec], sono soltanto alcune manifestazioni sintomatiche di un filone che, introiettate le lezioni demoniaco-polanskiane, esorcistico-friedkiniane e mutazionali-cronenberghiane, ha rilanciato forte sulla messa in crisi (appunto) dell’ambiente domestico. In una (post-post) modernità ormai allo stato gassoso, la solidità della casa evapora sotto la spinta del collasso economico e quella della famiglia si dissolve in una nube di incertezze e mancanze. Le porte si aprono ed entrano nuovi vecchi demoni. In Babadook, a sei anni dalla perdita del marito, morto in un incidente mentre la portava in ospedale a partorire, Amelia è spinta al collasso psicologico dalla debuttante Jennifer Kent, penna acuta in sceneggiatura e obiettivo raffinato in regia. La donna somatizza lo stress dovuto a una mancata elaborazione del lutto, a un figlio problematico cresciuto con indosso le catene della colpa, a un cappio finanziario sempre più opprimente e a ritmi lavorativi che non concedono respiro.
Il pretesto, al solito, è un feticcio. Una fiaba del terrore, racchiusa in un volume pop-up ben rilegato e intitolato Mister Babadook. Dopo la prima lettura, l’oggetto diventa invadente, torna dopo essere stato strappato e poi bruciato, bussa alla porta per richiamare il suo spazio. Infine, come da copione demoniaco, si stabilisce nella casa e possiede Amelia sotto gli occhi, increduli, del figlio. Tutto già visto e il Babadook, a prima vista, non sembra distante da qualunque altro boogeyman già mostrato al cinema (e sono tanti). A differenziare la creatura di Babadook dalla massa dei suoi simili, tuttavia, intervengono due aspetti distinti. In primo luogo, è proprio la contemporaneità delle motivazioni viste sopra a saldare l’arcaica dimensione dell’uomo nero all’esposizione odierna alla sua influenza. Tra il Babadook e il suo luogo di proliferazione ci sono spaccati di sociologia familiare, incursioni psicoanalitiche nell’adulta madre e nel fragile bambino, affreschi borghesi e istituzionali (le riunioni delle mogli, i colloqui con la presidenza scolastica e quelli con i servizi sociali), agenti umani i cui reagenti contestuali sono quelli comuni, di oggi, buoni dentro e fuori dal film. Alla regista non interessa tanto il mostro in sé e per sé (sporadici, ma graffianti, sono i momenti di svelamento e terrore puro), quanto l’humus e le ragioni del suo stanziamento: l’unico modo per affrontare il Babadook contemporaneo è conoscere i suoi perché, dunque conviverci e imparare ad addomesticarlo. Sconfiggerlo è impossibile: i suoi “mandanti” sono troppo più grandi di noi.
Il secondo scarto di Babadook è tecnico: la Kent agisce in sottrazione di orpelli, artifici ed enfasi retoriche tipiche dell’horror odierno. La sua messa in scena non prevede irruzioni visive o sonore improvvise. La suspense si concentra sul disagio provocato da espedienti stridenti, fastidiosi e appena sussurrati: una surrealista apparizione di scarafaggi da una crepa nel muro; il gracchiare sgradevole, metallico e quasi sofferente del Babadook; l’animazione burtoniana di un mostro mai del tutto svelato. Babadook afferma quanto lo studio formale possa vincere ancora la propria battaglia contro le tonitruanze standardizzate dell’horror. E conferma le potenzialità teoriche di un genere che scava nel mondo in cui viviamo.