Benedetta
2021
Benedetta è un film del 2021, diretto da Paul Verhoeven.
Se il cinema è l’arte di dare ragione agli irragionevoli, ai pazzi, ai deliranti, Benedetta ne è l’espressione più pura. Paul Verhoeven non ha cessato, nel corso della sua lunga carriera, di mettere in crisi il consueto regime di fede nell’immagine, per delimitare un territorio a parte, il suo, un regno dove la realtà e i suoi simulacri non solo non sono più distinguibili, ma si nutrono a vicenda, come un mostro autofago. Questo mostro si era già stabilito a Detroit in rovina (Robocop), su Marte colonizzato (Total Recall), in una Las Vegas by Versace (Showgirls), nello spazio fascizzato (Starship Troopers), nell’Olanda nazificata (Libro nero) o nella Francia Chabrolisée (Elle). Questa volta è in un’Italia martoriata che l’ouroboros (il serpente che si morde la coda) di Benedetta dispiega tutta la sua ambiguità, non lontano, nel tempo e nello spazio, dalle fortezze post-medievali di L’amore e il sangue. Tratto da un’opera storica di Judith Brown, Suor Benedetta, tra santa e lesbica, questo nuovo film dell’olandese residente in Francia (e prodotto per la seconda volta dal suo benefattore Saïd Ben Saïd), racconta la storia di questa suora vissuta, agli inizi del XVII secolo, a Pescia in Toscana, dove avrebbe potuto essere santificata se la Chiesa non si fosse decisa a condannarla per eresia, con l’accusa di aver simulato miracoli e di aver fornicato con una donna.
Fin dall’infanzia, con cui Verhoeven inizia la sua storia, Benedetta Carlini si mostra come una persona illuminata. Mentre i suoi nobili genitori la accompagnano al convento, il convoglio familiare viene assalito da banditi, i cui oscuri disegni sono però vanificati dall’incrollabile fede della bimba. Sogna Gesù, e Gesù la salva – un espediente kitsch-sognante che continuerà a tornare, provocando miracoli sempre più grandi, finché Benedetta non diventerà quasi santa. L’intervento divino richiesto dalla monaca, nella prima scena assume la forma di una cagata di uccello nell’occhio di un brigante con un occhio solo. Va inteso come un monito, ma anche come uno scherzo: che chi ha “merda negli occhi”, avverte il regista, si sottragga allo sguardo puro di Benedetta. Gli escrementi, come tutto ciò che è impuro e sporco, hanno sempre il loro posto nel cinema di Verhoeven, e in particolare in questo film dove si annidano le malattie (brillante anticipazione, tra l’altro, della pandemia che non era ancora avvenuta quando il film è stato girato) e dove i fluidi corporei transitano gloriosamente. Ma si oppone, in modo subdolo, a una purezza ideale per cui Benedetta accede al divino e si proclama “sposa di Cristo”, stupendo i cinici ecclesiastici che la circondano e che sembrano simulare la loro fede.
Questa cosiddetta purezza è però subdola, perché ben presto si comprende che i miracoli sono finti, e che la sorella è soprattutto una prestigiatrice. Ma sta mentendo per tutto questo? Qui sta il genio del film. Laddove qualsiasi regista si sarebbe opposto a questi due stati contraddittori, verità e menzogna, il regista di Basic Instinct, fedele a se stesso, li sovrappone. Come una particella quantistica, Benedetta è sia sincera che falsa. E Verhoeven raddoppia, con la sua regia, il carattere indecidibile dello spettacolo benedettino. Fin dall’inizio, infatti, qualcosa non va: la fotografia, la recitazione (più complessa di quanto sembri, di Virginie Efira, oscillante tra ingenuità e ironia; ma anche quella, non meno sottile, di Charlotte Rampling, di Lambert Wilson e della rivelazione Daphne Patakia), e anche il taglio (meno serrato del solito), porta il film sul lato televisivo. Anche di pastiche televisivi, poco distanti da Monthy Python (o dalla serie francese Kaamelott), con meno gags. L’unica religione a cui Verhoeven abbia mai aderito è l’intrattenimento. Uno spettacolo che porta alla fine della sua logica di prostituzione, per goderselo mentre ne denuncia l’ipocrisia. Con la sua scultura scolpita della Beata Vergine, Benedetta non fa altro.