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Berlinguer – La grande ambizione

2024
Titolo Originale:
Berlinguer - La grande ambizione
REGIA:
Andrea Segre
CAST:
Elio Germano (Enrico Berlinguer)
Giorgio Tirabassi (Alberto Menichelli)
Paolo Calabresi (Ugo Pecchioli)

Il nostro giudizio

Berlinguer – La grande ambizione è un film del 2024, diretto da Andrea Segre.

Un film di finzione “pura” su Enrico Berlinguer ancora mancava. Per inciso, la figura storica del leader del PCI oltre al documentario era entrata inevitabilmente in alcuni titoli, come Esterno Notte di Bellocchio, ma in modo tangenziale o periferico, mai da protagonista. Altri sguardi sono stati dedicati ai nostri fantasmi di quella stagione, dal ritornante Moro fino al Craxi di Hammamet, non al segretario comunista. Questa la premessa per accedere a Berlinguer. La grande ambizione, il film di Andrea Segre – cresciuto proprio nel doc – che ha aperto la Festa del Cinema di Roma 2024. Lo dico subito: se l’opportunità di colmare una mancanza, di saturare un vuoto è facoltà del cinema, allora un titolo simile è certamente benvenuto. Se invece si apre una riflessione generale su cosa l’arte settima può e deve essere oggi, le cose cambiano… Andiamo con ordine. Il film racconta gli ultimi anni di vita e lavoro del segretario PCI, quell’esistenza che si dissolve l’11 giugno 1984 dopo il famoso malore al comizio di Padova. Prima di questo però c’è la porzione più significativa, il distillato della sua essenza, cioè il tentativo di arrivare a un socialismo democratico e di portare il Partito Comunista al governo in Italia, attraverso la strategia del compromesso storico.

Berlinguer (Elio Germano) tesse la trama attraverso incontri e riunioni, appunto movimenti: vanno dai rapporti coi Paesi del blocco sovietico – Mosca in primis – sostanziati dal dialogo con Brezhnev che attesta la profonda divergenza di vedute, alle trattative interne al partito per stabilire la linea, fino al negoziato segreto con la Democrazia Cristiana e in particolare con Aldo Moro frequentato di notte. Tutto si consuma per un obiettivo superiore, la grande svolta, e la trama di Berlinguer si dipana in modo trasparente, specchiato, nell’interesse dei lavoratori che rappresenta e dell’intera popolazione. Ma al principio di tutto c’è un altro movimento, più tragico: un incidente stradale che coinvolge Berlinguer nell’incipit bulgaro, in cui si salva per miracolo, ma che lascia presagire la mano del fato, la final destination che insegue il politico. Andrea Segre sceglie un approccio “serio” e radicalmente anti-spettacolare, puntellato dagli innesti di filmati d’epoca ricavati dall’Aamod: un racconto fatto di meeting politici, di discorsi anche sfiancanti nel tentativo di “ambire” e sbloccare la situazione; a questi si alternano i momenti intimi di Berlinguer con la moglie e le figlie, con brevi detour sardi che riportano idealmente all’adolescenza, e si alterna anche il lato pubblico con Enrico che dibatte con operai, ferrovieri, compagne.

Il protagonista è serissimo, antidivo, ideologico e onesto. D’altronde la filologia berlingueriana viene esattamente rispettata: “non un leader ma un segretario”, lo ha definito Germano presentando il film, anche la figlia piccola disegna la sua figura a mo’ di scherzo definendolo grigio funzionario…E qui si torna alla questione primaria, almeno all’occhio mio, che peraltro riguarda proprio la modalità di disegno, la scelta di tratteggio. Vedere Berlinguer oggi ha un chiaro valore divulgativo, soprattutto al tempo dell’ignoranza generalizzata e della conoscenza digitata su Google: chiedete a dieci persone per strada chi era Berlinguer e vedete cosa vi rispondono… In tal senso la pagina di storia che lo riguarda viene esattamente riprodotta. Ecco il punto: se il racconto cinematografico di un personaggio è solo riproduzione, allora Berlinguer potrebbe essere un grande film. Se il racconto è anche interpretazione, ossia costruire una lettura personale, una chiave d’ingresso, un percorso possibile dentro la figura, Berlinguer non è questo. Un’idea rafforzata anche dalla prova di Germano, mimetica, cesellata al make-up, insomma imitativa con tutto il rischio dell’imitazione: porsi un limite da sola, accontentarsi di somigliare senza interpretare.