Better Man
2024
Better Man è un film del 2024, diretto da Michael Gracy.
La teoria dell’evoluzione ci ha insegnato che solo i più forti sopravvivono. O, per essere più esatti, coloro che dimostrano una sufficiente capacità di adattamento a quelli che il buon vecchio Shakespeare, per bocca del suo amletico portavoce, amava definire “i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna”. E tutto si può dire a (s)proposito di un Supreme come Robbie Williams, tranne che, in oltre trentacinque anni di scoppiettante carriera al grido di Let Me Entertain You e cinquanta tondi tondi di tutt’altro che morigerata vitaccia, il nostro weirdo di Stoke-onTrent non abbia saputo adattare sé stesso e il proprio stile ai mille Tripping e contraccolpi che solo un’esistenza vissuta pericolosamente all’ombra dell’imperativo No Regrets può riservare. Un uomo ancor prima che un The Greatest Showman; capace di evolversi da sbarazzino Bad Boy a maturo e consapevole Better Man la cui onnipresente sindrome dell’impostore e fisiologica insicurezza lo hanno tuttavia portato a considerarsi alla stregua di un animale ammaestrato decisamente meno evoluto dei propri simili. Un eterno Kids di collodiana memoria alla disperata ricerca di Something Beautiful; abituato a convivere giocoforza coi propri demoni – o scimmie, come si direbbe, non certo a sproposito, dalle parti degli Alcolisti Anonimi – interiori pronti a palesarsi a tradimento in qualche buio anfratto di un affollato concerto senza vedere, sentire né tantomeno parlare. Alla luce di ciò, volendo dunque rimanere in tema, Me and My Monkey non può certo apparire solo come l’allegorico titolo di una delle punte di diamante di un album imprescindibile quale Escapology, quanto piuttosto una vera e propria dichiarazione d’intenti di un drogato di fama e altrui accettazione più che di altre psicotrope sostanze; pronto tuttavia a mandarci bellamente e sibillinamente a quel paese a nemmeno un tocco di lancetta dal cacofonico prologo.
Quale miglior modo, dunque, d’incarnare in forma filmica una tale dismorfia se non attraverso uno scimmiesco alter ego di digitalissima fattura che, così come il frizzante alter-LEGO di Pharrell Williams protagonista del curioso Piece By Piece, funge da allegorico MacGuffin tramite cui dar modo al barocco obiettivo di un Michael Gracy in odor di Baz Lurhmann e all’altrettanto istrionica performance in motion capture di un eclettico Jonno Davies di narrare, tra il serio e il faceto, tra mito e aneddotica, la parabola di ascesa, declino, e rinascita personale – ma soprattutto professionale – di una delle icone pop più rutilanti e redditizie della post-post modernità. Ma nonostante tutti i lustrini, il danzereccio barocchismo, il didascalico contrappunto canoro a suon di hit del vecchio e nuovo Millennium e quella pretenziosa – quanto inevitabile, visto il genere – cappa di predestinazione che rimpinzano le dense due ore e un quarto di durata, Better Man non è affatto, come si potrebbe pensare, un ennesimo Rocket Man. E nemmeno il Monkey Man di Dev Patel, a ben vedere; nonostante un certo furioso e sfrontato nichilismo di fondo che, condito da una psichedelia spesso occhieggiante a Ken Russell unita ad una certa poetica di (auto)distruzione del mito debitrice di certo cinema scorsesiano, ci conduce ai titoli di coda con la malsana sensazione di essere noi stessi, in quanto spettatori e, dunque, consumatori la vera scimmia sulle spalle del nostro CandyMan. L’epopea del piccolo Robert dagli Occhi Azzurri – dove ogni possibile riferimento alla Apes Saga, date le circostanze, così casuale forse non è –, cresciuto negli ottantini sobborghi proletari dello Staffordshire nell’adorazione di Frank Sinatra – il primo e vero Blue Eye –, Sammy Davies Jr. e Dean Martin da una madre (Kate Mulvany) e una nonna (Alison Steadman) così amorevoli e risolute nel loro ruolo di mentori, fornisce infatti l’ineluttabile trampolino di lancio per una futura carriera da autentica bestia da spettacolo, vissuta tra le giovani fila dei Take That prima che le infantili invide da jam session, le insanabili tensioni con il mefistofelico manager Nigel Martin-Smith (Damon Herriman) e il fetentissimo spettro della dipendenza lo trascinassero attraverso una fortunosa carriera da solista fin sull’orlo dall’autodistruzione.
Un biopic? Un musical? Oppure uno scaltro fan service che, per l’appunto, solo i più accaniti aficionados dello scalmanato Rock DJ potranno apprezzare pienamente e con cine-musicale cognizione di causa? Che Better Man voglia disperatamente essere tutto e un po’ (troppo) non è affatto un mistero; così come dimostrato da un ritmo rutilante che non sempre si armonizza con gli onirici bagni di drammatica – e drammatizzata – “realtà”, in cui il tribolato rapporto con l’amata Nicole “She’s the One” Appleton (Raechelle Banno), la difficile riconciliazione con amici e colleghi d’un tempo così come lo schizofrenico legame di amore/odio – maldestramente risolto, va detto, in un finale parecchio stucchevole nel suo voler catarticamente citare, forse inconsapevolmente, l’epilogo assai piagnone del Judy di Rupert Goold – con un padre (Steve Pembenton) tanto scostante quanto ispiratore rischiano spesso per perdere progressivamente mordente sotto il peso dell’ingombrante pretesto di un simbolico metamorfismo che, se al principio può certamente stupire e coinvolgere, già dopo il primo mezzo giro d’orologio finisce per essere giocoforza assimilato e, dunque, in gran parte depotenziato della propria originaria carica provocatoria. Ma d’altronde, che ci piaccia o meno, l’elefante – o, per l’appunto, la scimmia – nella stanza è lì perennemente in bella vista come il sedotto e abbandonato Pinocchio dalla voce angelica del bello e dannato Annette di Carax: un canterino e danzereccio primate in perenne contraddizione col proprio status di “artista” comunque capace di tenere sotto scacco centoventicinque mila persone inneggiando a Love My Life – ma soprattutto My Way –; rendendo dunque Better Man un’esperienza assai immersiva che, seppur procedendo per eccessivo accumulo, autocompiacimento e, perché no, pure un pizzico di autoassoluzione, riesce straordinariamente ad appassionare ed intrattenere come ogni grande mito fondativo che si rispetti senza per forza vedere, sentire né tantomeno parlare a sproposito di “capolavoro”.