
Black Mirror 7×03: Hotel Reverie
2025
Black Mirror 7×03: Hotel Reverie è il terzo episodio della settima stagione di Black Mirror, diretto da Haolu Wang.
Non so voi, ma per ciascuno dei suoi densi settantotto minuti, Hotel Reverie mi ha ricordato tantissimo quell’intramontabile gioiellino che fu ed è tuttora La rosa purpurea del Cairo. Non solo per l’improbabile attrazione destinata a sbocciare contro ogni fisica, tecnica e soprattutto etica previsione tra un essere di carne e uno di celluloide, quanto piuttosto per l’intellettualmente provocatoria idea che l’amore stesso non abbia di fatto alcun vero confine; né di tela né tantomeno a cristalli liquidi. So bene che i più attempati integralisti della Settima Arte tireranno giustamente in ballo le mille assonanze che legano il fittizio masterpiece partorito in tempo di fama dall’immaginaria Keyworth Pictures con l’immortale Casablanca di Michael Curtiz; senza in verità cogliere che, al di là di una mise anni Quaranta in gloria della vecchia dorata Hollywood, l’universo diegetico nel quale la bella Dorothy Chambers (Emma Corrin) si prepara a (ri)vivere secondo copione le proprie avventure ha decisamente ben più da spartire con la simulazione in odor di caverna platonica sperimentata dagli ignari NPC che già popolavano Il tredicesimo piano di Josef Rusnak. Se, tuttavia, ben prima dello schwarzeneggeriano Last Action Hero di John McTiernan era stato proprio lo spaesato Jeff Daniels, protagonista del sopracitato metafilmico gioiellino alleniano, ad abbandonare il proprio natio universo imbevuto di nitrato d’argento per approdare in un depresso e ben poco epico Aldiquà, la cinefila dinamica fuoriuscita dalla penna del fido Charlie Brooker inverte stavolta il senso di marcia; guardando piuttosto alle cinenautiche immersioni into the screen che il Craven di Sotto Shock, il Peter Hymas di Frequenze Pericolose e il Gary Ross di Pleasantville compirono a loro tempo per interposti simulacri.
È infatti un’esperienza simulacrale quella che l’eterna co-protagonista e spalla sexy Brandy Friday (Issa Rae) avrà modo di vivere nel momento in cui le verrà data l’opportunità di partecipare, in qualità di main character, al veniale remake di quel glorioso Hotel Reverie da lei lungamente idolatrato e ora pronto a essere dato in pasto alla deficitaria attenzione dei giovani utenti del famigerato catalogo Streamberry. Proprio quel medesimo paranetflixiano portale al centro delle disavventure del cultissimo Joan è terribile che, all’interno di una lore, come quella di Black Mirror, dove l’intrattenimento porta il corpo attoriale a svendersi a un Aldilà artificialmente intelligente, sembra prefigurare un futuro non troppo dissimile da quello profeticamente immaginato da Ari Folman con il suo desolante The Congress. Se dunque, almeno nella finzione diretta da Haolu Wang, esiste un’istituzione come la fumosa ReDream capace – per bocca della sua front woman Kimmy (un’Awkwafina ormai sempre più persona e meno personaggio) – d’innestare una qualsivoglia coscienza all’interno dell’autosufficiente simulazione di un prodotto audiovisivo, in modo da permettere l’interazione con repliche autocoscienti dei personaggi che la abitano, allora significa che ogni nuovo sforzo creativo non potrà che rivelarsi pressoché inutile. Ma ecco che il caffè sbagliato, rovesciato nel momento sbagliato sulla consolle sbagliata, manderà a ramengo ogni più roseo script; congelando la timeline di questo Breve incontro 3.0 in un eterno qui e ora nel quale i minuti diverranno ore e i giorni addirittura anni.
È dunque in questo limbo fuori dal tempo e, in un certo senso, pure dal cyberspazio— non molto differente dalla eonica prigione alla base del dolceamaro Bianco Natale — che le nostre due primedonne, entrambe ormai composte della medesima pixelata materia di cui sono fatti i sogni, avranno modo di conoscersi, esplorarsi e infine amarsi di un ardente e tutt’altro che virtuale omoerotico amore. Una passione che, come quella già sperimentata nel malinconico San Junipero così come nel coraggiosissimo Striking Vipers, non potrà che apparire ben più epica e immortale del più classico — ed eterosessuale — dei romance. C’è parecchia nostalgia e tanta tenerezza alla base di un densissimo episodio come Hotel Reverie. Ingredienti che, forse, i più reazionari cultori della seriale creatura ideata da Brooker non definirebbero propri di un universo originariamente così disturbante. Ma basta sollevare la questione della presa di (auto)coscienza da parte di un’entità digitale – plasmata sul tragico vissuto e sulla faticosamente repressa natura dell’umanissima materia di cui è inconsapevole copia – per rientrare in quei distopici e familiari ranghi di cui, in cuor nostro, sentivamo disperatamente la mancanza. Se poi avessimo anche la voglia, il tempo e la spoilerosa sfacciataggine di soffermarci su di un epilogo così apparentemente agrodolce ma che, confesso, continua a lasciarmi addosso una viscerale sensazione d’inquietudine, beh, capite anche voi per quale motivo un episodio del genere, all’interno di una stagione del genere, meriti di essere amato “ora e per sempre”.