
Black Mirror 7X06: USS Callister: Into Infinity
2025
Black Mirror 7X06: USS Callister: Into Infinity è il sesto episodio della settima stagione di Black Mirror, diretto da Toby Haynes.
Una delle leggende digitalpolitane che ad alcuni di noi, nativi analogici, tocca ricordare, è questa: il demonio si nasconde dietro i codici sorgente di Windows. Ricordo di averla sentita per la prima volta allo scavallare del nuovo millennio, quando, stagista non più giovane, muovevo passi claudicanti in una software house, di quelle che implementano ottimizzano e poi svaniscono. Avevo un tutor che raccontava di una stringa di comandi per iniziati, una sorta di Klatu Varada Nikto, da digitare tutta d’un prompt per spalancare le porte dell’Inferno sul pallido schermo di un laptop. Ci credetti immediatamente, chè quella tastiera già mi pareva un ouija, ma mi astenni dal farlo. Tempo dopo, venni a sapere che il dicitur aveva un bel fondo di verità: dietro Excel 95 si celava infatti un videogioco, The Hall of Tortured Souls, che opportunamente richiamato permetteva di addentrarsi in un labirinto cupissimo, tra nomi e foto dei programmatori. Un Easter Egg, per quanto lugubre. Ho pensato ad Hall of Tortured Souls guardando questo USS Callister: into Infinity, episodio sovrano del Black Mirror stagione 7. Un film, un lungometraggio di 90 minuti che infrange la regola fondamentale della serie, antologica per definizione. È infatti un sequel, la puntata 2 di altro episodio, di altra stagione. Parliamo ovviamente di USS Callister, primo in ordine di rilascio in stagione 4 (anno 2017), lungometraggio anch’esso di 76 minuti. Interrogato sul perché di un sequel, il creatore di Black Mirror l’ha menata sui massimi sistemi, riferendosi all’affetto dei fan, alle linee narrative possibili, alla qualunque. La realtà – distopica – è a nostro avviso ben diversa. C’è che USS Callister è stato un fattore esorbitante rispetto al suo stesso contenitore, ha avuto un impatto imprevedibile nell’immaginario e nella cultura di massa, segnatamente nella cultura legata al gaming, e derivatamente nella subcultura – infernale – degli Incel. Si tratta infatti di un’opera che attacca frontalmente la misoginia videoludica, lo fa con uno stile sarcastico, trascinante, corrosivo, e lo fa addirittura in anticipo sui tempi del #MeToo e della lotta sistematizzata al patriarcato e alla manosfera. Lo spunto di USS Callister veniva dal famigerato “Gamergate”, la campagna di odio scatenata contro una donna e il gioco da lei realizzato, Depression Quest. Depression Quest usciva dai canoni dei giochi più in voga (GTA Vice City, su tutti) per affrontare e rappresentare l’universo mentale della depressione. Questo aveva suscitato l’indignazione dei pasdaran dello sparatutto, convinti che la cosiddetta “politica” dovesse restare fuori dalle loro desolate terre virtuali, per loro natura al di là della legge.
A gettare fango cominciò un ex fidanzato, pubblicando un post zeppo di offese, insinuando che la donna avesse una relazione con il giornalista che aveva recensito positivamente Depression Quest. Il post fu ripreso e moltiplicato da miriadi di sedicenti videogiocatori coperti da nickname e profili falsi, infiammò Reddit, 4chan, 8chan. Per questa campagna di odio qualcuno coniò l’hashtag #gamergate. Gamergate pareva far proseliti ovunque, senza un vero mandante unitario, ma con l’obiettivo condiviso di annientare la reputazione della donna. Leigh Alexander, giornalista e sceneggiatrice di videogiochi, affidò alla rivista cult Gamasutra la sua personale, definitiva reazione al Gamergate: “All’improvviso – scrisse Alexander – una generazione di ragazzi solitari che vivevano in cantina si è ritrovata con i venditori che gli sussurravano all’orecchio che erano la fascia demografica commerciale più importante di tutti i tempi. All’improvviso hanno iniziato a indossare camicette lucide e ad appuntare ragazze in bikini su tutto ciò che creavano, hanno iniziato a creare giochi che vendevano la promessa di una mascolinità ad alto numero di ottani a ragazzi come loro. All’inizio del millennio, questi erano gli unici segnali culturali importanti dei giochi: avere soldi. Avere donne. Procurarsi una pistola e poi una pistola più grande. Essere un emarginato. Celebrare questo. Sconfiggere chiunque ti minacci. Non aver bisogno di riferimenti culturali”. Ed ecco USS Callister. Il protagonista è un progettista di videogiochi, Robert Daly, interpretato da Jesse Piemons. Timido, goffo, solitario. Invisibile è la parola giusta, tanto da non essere capace nemmeno di attirare l’attenzione della vigilanza ai tornelli della Callister, l’azienda in cui lavora. Che, in effetti, sarebbe la sua azienda, quella che ha concorso a creare. L’incipit consente di cogliere le dinamiche di interazione in uno spazio di lavoro che è tutto pannelli, cubicoli e open space. Si scopre che Daly sarebbe sì il genialoide, ma privo di empatia e istinto commerciale, doti che invece hanno portato Walton, suo socio all’origine, ad essere amministratore delegato e plenipotenziario. Daly e Walton sono dicotomici: sfigato l’uno, vincente l’altro. Uno Incel senza donna alcuna, l’altro chad-maschio alfa con famiglia. Un giorno arriva in azienda Nanette, giovane neoassunta, promettente game developer, e colpisce al cuore Daly. Si professa sua fan, lo riempie di attenzioni, breccia il muro della sua solitudine. È una situazione effimera: la radio senza fili della colleganza si mette all’opera, le altre donne la mettono in guardia da questo strambo figuro tristo. Lei, atterrita, non se lo fila più. Daly in effetti è brutto, solo e cattivo. Ci mette un attimo per passare dalla delusione al rancore: con uno stratagemma si appropria del Dna di Nanette e corre a casa. Non è la cantina di cui parla Alexander, è un loft pluriaccessoriato, ma va bene lo stesso.
Eccolo al pc: programmazione, visore sugli occhi e via al videogioco. Si chiama Infinity, sembra in tutto e per tutto una parodia di Star Trek, con la plancia di comando di un’astronave, uomini e donne in tutine vintage new optical, finestroni con vista sulla Via Lattea. Qui però non c’è un capitano Kirk, c’è il Capitano Daly, non solo comandante, ma dio del suo mondo. Ha creato lui il suo equipaggio, composto di avatar/cloni dei colleghi più invisi, in primis il socio Walton. Su di loro ha potere di vita o di morte: li costringe all’obbedienza con punizioni corporali, può trasformarli in animali ripugnanti. Nanette si trova precipitata in questa paranoia spaziale, e il suo terrore raggiunge l’apice quando gli altri simulpersonaggi le mostrano la scomoda verità: non ha organi genitali. Nessuno ha organi genitali in Infinity. Un universo infantilizzato, dove il sesso si rivela per quello che è, un tabù, un complesso da rimuovere. Nanette (il suo clone) però non ci sta, vuole essere padrona del suo destino e, soprattutto della sua vagina, nel mondo reale o virtuale che sia («rubare la mia passera è il punto di non ritorno!»). Con uno stratagemma, utilizzando le piattaforme di messagistica dei gamers, riesce a mettersi in contatto con la Nanette nel mondo reale, e a far cadere l’Incel tiranno in una trappola. Convinto di giocare per guidare l’ennesima missione trionfale, Daly si autodistrugge in un buco nero – morendo anche nel mondo reale, attaccato al suo visore – mentre il suo equipaggio, oramai libero, riesce a resettare il sistema e ad azzerare la simulazione. Da qui prende le mosse questo USS Callister: into Infinity. Se nel primo episodio l’esperienza di gioco era appannaggio del divin programmatore, in funzione onanistica autoreferenziale, nel secondo è il clone di Nanette a giocare, meglio, ad esser costretta a giocare, per far sopravvivere l’equipaggio dei colleghi/cloni liberati. Il metaverso di Infinity è infatti retto dalle solite regole simulcapitalistiche, accumulare denaro e vite per missioni sempre nuove, e questo la costringe ad un grottesco hackeraggio dall’interno, predando gli ignari giocatori paganti durante le regolari sessioni di gioco. Ciò alimenta reclami e minaccia il fatturato di Infinity, allarmando Walton. Nanette e Walton devono quindi unire le forze con due finalità contrapposte: lei, leader illuminata e solidaristica, vorrebbe creare una nicchia nel metaverso in cui il suo equipaggio possa vivere in pace in eterno; lui, più pragmaticamente, vorrebbe tornare alla stabilità esponenzialmente profittevole del sistema.
Occorre che agiscano sul codice sorgente del gioco, ma questo non è propriamente un codice: è la coscienza di Daly, imprigionata nell’eterno programmare e creare metaversi, con un fumetto vintage di guerre galattiche come unica, opinabile fonte di eticità in mezzo al caos. Le finalità sono solo apparentemente convergenti: ovvio che Walton non sia minimamente interessato alla sorte dei cloni, e che alla prima occasione tradisca Nanette e aizzi l’universo mondo dei giocatori contro il suo picaresco equipaggio. Nanette però ha mille risorse, arriva allo stargate del codice sorgente, che poi è la solita porta del solito garage, come scrisse Alexander ma anche come tramandatao dalle intollerabili agiografie di Jobs, Gates, Bezos e compagnia bella, sogni americani da sottoscala un tanto al bit. Anche nella vita virtuale Nanette riesce a fare colpo sul Daly in versione 1.0, cioè sempre lui ma ancora più solo, ancora più sociopatico, ancora più bambinizzato. Sembrerebbe esserci una via di uscita pacifica per tutti, ma poi la presenza di una donna nella sua tana da perfetto incel gli scatena l’ormone, e con esso quella incontenibile, violentissima volontà di possesso, di patriarcato tossico. Si arriva al redde rationem che sa di contrappasso, a cominciare dal mondo reale, dove Nanette in fuga da Walton viene investita e sprofonda in un coma irreversibile, come toccato al Daly di episodio uno. Dentro la simulazione ecco invece la Nanette clone di nuovo a lottare con il dio Daly ed a terminarlo con le sue stesse armi feticcio, per il big bang definitivo, il crash del sistema. Il mondo virtuale svanisce, ma una parte di esso, misticamente, per via di elettrodi e connessioni neurali confluisci dentro il lobo frontale della moribonda Nanette, ridestandola. Sarà un’esistenza nuova la sua, con una personalità arricchita dalla leadership e dall’empatia sperimentate nel gioco, e da altre amichevoli, inattese presenze. Into Infinity, più che un atto d’accusa, è un de profundis inesorabile, non solo per la cultura del gaming, ma per la mistica delle big tech. Nessun afflato visionario o filantropico in esse, solo evoluzione naturale di un capitalismo spietato, cannibale, intrinsecamente mascolino. Come è noto a tutti i nocturniani, nulla di buono può venire da chi pasce e trama al chiuso del suo garage o della sua cantina (the basement, the cellar), men che meno da chi è cresciuto con fumettazzi e giornaletti che proiettavano nella fantascienza la solita, irredimibile bramosia di colonialismo bianco. Adolescence ci insegna a diffidare dei pericoli dei social per i nativi digitali, ma questi sono ancora pericoli potenziali. Le insidie, reali, esiziali, vengono dai boomers e dalle loro piratesche subculture.
“No time no space, another race of vibrations, the sea of the simulation. Keep your feelings in memories, I love you, especially tonight”. (F. Battiato)