Bloodride
2020
Bloodride è una serie tv del 2020, ideata da Kjetil Indregard e Atle Knudsen.
La quarantena ha chiuso in casa mezzo mondo, e prima che i server collassino come paventato da Zuckerberg e il traffico abbatta la qualità dei servizi streaming a livelli da camrip di dieci anni fa, Bloodride farà in tempo a tenere compagnia per un paio di sere ad appassionati e turisti dell’horror casalingo. Una miniserie antologica norvegese che sembra fatta apposta per questi tempi di malinconica clausura forzata; episodi brevi e veloci, con valori produttivi e visivi da corti Vimeo, e accessibilità fluttuante tra un pubblico dai dodici ai novantotto anni. L’offerta streaming della piattaforma di Ted Sarandos ha sempre investito molto in questo format di horror disinfettato, passatista, piuttosto anemico e vagamente giovanilista. Adeguandosi in maniera forse fin troppo scolastica allo standard, Kjetil Indregard e Atle Knudsen danno dunque la loro interpretazione della formula; sei raccontini da venticinque minuti, da seguire senza troppa attenzione, magari con il telefonino o il telegiornale accesi. Nel ricchissimo continuum del sottogenere, Bloodride si pone senza troppe ambizioni nel vecchio solco tracciato da Ai Confini della Realtà, mettendo serenamente da parte ogni evoluzione subita in seguito dal modello antologico. Un approccio “vecchio stile” che, cancellando decenni di Black Mirror televisivi e ABCs of Death cinematografici, può suonare indifferentemente come una boccata d’ossigeno, o un irritante scarico di responsabilità.
Complice la durata media dei tasselli, i due scrittori si affidano ad uno schema ricorrente, incentrato unicamente sull’attesa del colpo di scena; ogni corto si apre in un contesto classico, introduce una bizzarria soprannaturale, porta velocemente a degenerare la situazione e si chiude con un twist più o meno fantasioso a ribaltarne la premessa. Pochissima voglia di cimentarsi con la metafora del “grande tema”, ossessione ricorrente dell’indie horror recente: solo sei simpatiche storielle, sobbalzi, e rassicurante compiutezza. La cosa forse più deludente di Bloodride, in rapporto alla media dei già non esaltanti progetti internazionali finanziati da Netflix, è forse la sua totale assenza di specificità. La casa di distribuzione non ha certo dato vita a chissà quali classici; ma le centinaia di innesti prodotti per accumulo in giro per il mondo hanno sempre saputo in qualche modo portare un segno, uno stile, anche solo una traccia estetica del proprio contesto di riferimento. La Norvegia è invece la grande assente di questi sei episodi, talmente generici e fumosi che potrebbero avere luogo ovunque, come delle barzellette. Un sensibile passo indietro per gli standard di una piattaforma che, negli ultimi anni, aveva saputo mantenere il primato dello streaming anche valorizzando l’internazionalismo dei propri contenuti, a fronte di una concorrenza appiattita su produzioni anglofone.
Bloodride non sorprende né ci prova (e, ovviamente, non fa paura mai). Come da tradizione Netflix Originals, il progetto intero sembra concepito per stimolare il binge watching dello spettatore casuale (un episodio per provare, un altro per curiosità, il resto consumato passivamente per non lasciare le cose a metà) più che per dare qualcosa ad un target mirato; lo schema ormai ricorrente di un bacino sempre più largo di prodotti televisivi pensati per tutti e per nessuno. In questa aurea mediocritas, le sei competenti storielle vanno giù come acqua fresca; non a caso, i guizzi migliori arrivano in quelle che rinunciano direttamente ad ogni legame diretto con l’horror e (sia mai) lo spatter, per giocare direttamente sul racconto di suspense. Eliminati retaggi culturali invadenti, assenti chiavi di lettura particolari e anteposto il plot alla messa in scena, per parlare di Bloodride non resta che limitarsi a qualche arbitraria classifica interna. Gli episodi migliori sono probabilmente il 2 e il 6, quest’ultimo in particolare l’unico ad affrontare un tema disturbante e originale come il mobbing lavorativo. Il 3 e 4 fanno sorridere, più che altro grazie allo spunto; l’1 e il 5 sono solo mortalmente noiosi. Oltre agli script, Knudsen ha curato personalmente anche la regia, assieme al collega Geir Henning Hopland; non si può certo parlare di promesse nate.