Caged
2021
Caged è un film del 2021, diretto da Aaron Fjellman.
Fra qualche decennio, quando l’incubo pandemico sarà, si spera, solo un lontano ricordo, i posteri avranno forse qualche difficoltà nel comprendere le motivazioni che stanno alla base di un film come Caged. I nostri figli e nostri nipoti, non più soggetti a coprifuochi, quarantene e legacci vari, avranno infatti di che arrovellarsi nel tentativo di capire che cosa abbia spinto un esordiente come Aaron Fjellman a buttare anima e corpo in un teso e allucinato kammerspiel carcerario nel pieno degli anni ’20 del Ventunesimo secolo, tanto anacronistico ai vispi occhietti del futuro quanto più che mai in linea con un presente in cui la reclusione per cause di forza maggiore è divenuta una triste quotidianità. Prendendo dunque atto di essere figlia del proprio tempo, la pellicola in questione vorrebbe tuttavia mettere in guardia l’opinione pubblica riguardo il dilagare di una pestilenza ancor più virulenta e insidiosa del coronato morbo che tutti ormai abbiamo imparato a conoscere, la quale riguarda per l’appunto la dilagante insanità mentale che pare colpire in special modo i detenuti a lungo reclusi in regime di completo isolamento. Per far ciò il caro vecchio Fjellman confeziona un racconto indubbiamente incalzante e ricco di suggestioni, nel quale tuttavia la bulimia di frecce scoccate finisce per non centrare mai completamente il bersaglio, lasciandoci addosso solo un vago sentore di straniamento destinato a esaurirsi già dopo la sparizione dell’ultimo titolo di coda.
Caged è infatti il tipico esempio di un prodotto “immersivo”, nel quale cioè ogni singolo sforzo cinematografico messo in campo è specificatamente indirizzato a far sì che il pubblico possa immedesimarsi quanto più possibile nella progressiva follia alla quale la brillante e acuta mente del protagonista è costretta progressivamente a cedere. Costui infatti è Harlow Reid (Edi Gethegi), stimato e promettente psichiatra afroamericano accusato dell’omicidio della giovane moglie Amber (Angela Sarafyan) e pertanto gettato in pasto alla famelica macchina carceraria, senza neanche la sicurezza di un’equa rappresentanza legale. La permanenza in gattabuia non sarà certo una passeggiata, con un vicino di cella fermamente convinto dell’esistenza di demoni e fantasmi, un pazzo direttore affetto da fanatismo religioso e una ferina secondina (Melora Hardin) con una sadica antipatia per i molestatori del gentil sesso. Il progressivo esaurirsi di una matita con cui redigere la propria delirante arringa difensiva diviene dunque metafora del progressivo assottigliamento della sanità mentale del nostro presunto uxoricida, il quale si troverà ben presto affetto da terribili allucinazioni che, tra inquietanti vocine dritte dritte dalla tazza del cesso, interminabili dialoghi allo specchio con un assillante alter-ego e una sinistra macchia di muffa sempre più simile alla defunta mogliettina, saranno solo l’anticamera verso un inferno ormai tutt’altro che simbolico.
Passato il primo quarto d’ora, Caged appare un incubo decisamente coinvolgente, capace di farci assaporare la pazzia in tutte le sue possibili cinematografiche sfaccettature, portandoci più volte a deuterare, così come il protagonista stesso, riguardo al vero confine tra realtà e follia. Già però alle soglie della mezz’oretta l’impalcatura rivela tutta la propria fragilità, iniziando a crollare su se stessa sotto i colpi di una ripetitività tanto di contenuto quanto di forma, quest’ultima disperatamente votata a nascondere l’immancabile disfatta sotto il peso di distorsioni ottiche, sfocature insistenti e un montaggio alla lunga fastidiosamente sconnesso. Il pot-pourri di elementi apparentemente sovrannaturali, laddove dovrebbe creare angoscia e inquietudine, alla lunga rischia persino di sfociare nella macchietta, soprattutto tenendo conto della velocità a dir poco assurda con cui il confine della paranoia viene pesantemente valicato. E dire che ci eravamo affezionati in un modo stranamente morboso alla disfatta mentale del nostro povero Edi Gethegi, incoraggiata e corroborata dalle mille angheria di una spietata Melora Hardin, sfregiata tanto nel volto quanto nell’anima da una controparte maschile che pare essere alla base della propria personale lotta all’ultimo sangue contro il masculo sesso forte. Si, proprio un gran peccato, soprattutto se si pensa a quanti possibili assi Fjeliamn aveva a disposizione nella propria manica, scegliendo invece di optare per la più semplice e sicura strada di un thrillerino psicologico senza verve e, cosa più importante, senza la ben che minima volontà di osare qualcosa di davvero innovativo. Per carità: con tre attori e un set che, a conti fatti, si riduce a due metri per due non è che si possano certo fare i salti mortali. Tuttavia, come il sanguigno Uwe Boll ci ha ben insegnato con quel piccolo capolavoro che è Stoic, la tensione, quella vera, può essere tranquillamente evocata anche nell’angusto spazio di una cella.