Calibro 9
2020
Calibro 9 è un film del 2020, diretto da Toni D’Angelo.
Ricordi. L’anno poteva essere il 2001 o il 2002. Sono a casa di Fernando e stiamo parlando delle sue sceneggiature, che sono disposte negli scaffali della sua libreria come soldati, in bell’ordine. A un certo punto, non so come, la conversazione piega su Milano calibro 9 e gli domando, a bruciapelo, come lo farebbe, Di Leo, oggi, un remake o un reboot (ma allora il termine reboot non si usava) o magari anche un sequel, di Milano calibro 9. Lui non deve nemmeno pensarci, probabilmente perché ci ha già pensato e in battuta, mi risponde che, oggi, non avrebbe più senso fare un film su Ugo Piazza, sull’Americano, su Rocco Musco, sui duri del milieu, perché oggi Milano calibro 9 lo si potrebbe fare solo parlando dei loro ragionieri, dei contabili della mala, di quelli che amministrano i loro denari e li gestiscono con le nuove tecnologie. Di Leo non aveva che una vaga conoscenza di Internet e delle transazioni fatte attraverso i mezzi virtuali. Non ne aveva una conoscenza tecnica, ma ne aveva intuito perfettamente la filosofia, per dir così, in rapporto al progredire dei tempi. Narro questo aneddoto per introdurre, credo nella maniera più consona, Calibro 9 di Toni D’Angelo, che del film di Fernando si pone dichiaratamente come seguito, a distanza di qualcosa come cinquantanni spaccati nel 2021. Eravamo rimasti a Moschin che schiantava la faccia alla Bouchet con un destro, prima di crollare sotto i colpi dl giovane amante di quest’ultima, il giubbino rosso che lo aveva seguito come il Destino o come la Morte fin dall’inizio. Inciso: Fernando, alla domanda se la Bouchet fosse morta, dopo essere stata attinta da quel gancio devastante, mi rispondeva che sì, era morta. Invece no: Nelly Bordò, non è morta, Piazza l’aveva “incintata” (dileismo, sottolineo) e ne era nato un figlio che adesso ha la faccia di Marco Bocci, avvocato penalista nei cui geni sono passati evidentemente quelli di ladrone del padre, tant’è che grazie a una hacker francese che ha tirato fuori di galera, si fotte 100.000 euro della ‘ndrangheta.
La cosa interessante è che, all’inizio, usano la stessa identica struttura di Milano calibro 9, quando i Rocco Musco della situazione vanno ad acchiappare quelli che sono in sospetto di essersi fregati i denari e gli fanno fare fini atroci (c’è persino la rasoiata sulla faccia), arrivando fino a Bocci, (che nel film si chiama Fernando), il quale nega e non parla nemmeno quando a sua madre (la Bouchet stessa) spaccano una gamba e la riempiono di pugni. Tutta la prima parte di Calibro 9 sta molto attaccata al proprio archetipo, e lo ricalca/clona al punto da utilizzare persino dei brani dell’originale (con una scelta anche abbastanza discutibile). Dopodiché, quando Bocci comincia a rendersi conto che la sua furbata lo ha messo in mezzo a una guerra tra gang rivali, il film piglia una strada del tutto diversa. Se ne va per conto proprio, avrebbe detto Fernando, pensando più nei termini di un action attuale che in quelli passatisti (se non come forma, come concettualità) dell’inizio. Entra in gioco Ksenia Rappaport che era una ex di Bocci, ora avvocatessa nonché nipote del vecchio leader di uno dei capintesta dei clan confliggenti, insieme alla quale il protagonista deve raggiungere, nel Nord Europa, una specie di suprema corte di giustizia mafiosa che stabilirà il da farsi. La natura diventa quella di un road-movie, zeppo di sparatorie e inseguimenti rocamboleschi e con quel tasso di iperbole che il registro richiede. Salvo, nel finale, fare machine arrère rientrando nel solco di una cattiveria da noir che non sarebbe spiaciuta a Fernando, sebbene sul finalissimo si possa nutrire più di qualche perplessità. La sceneggiatura è firmata da Luca Poldelmengo, Toni D’Angelo, Marco Martani e Gianluca Curti (figlio di quell’Ermanno che produsse l’originale di Di Leo) e come già detto avanza proprio sulle orme del prototipo quando fa comparire la Bouchet e riprende il personaggio di Rocco Musco, che esce di prigione or ora dopo avere scontato la pena per avere (tra le altre cose) schiantato su uno spigolo, più e più volte, la testa dell’assassino di Ugo Piazza. Adorf non si capisce se non abbia voluto o potuto tornare a rifare il siciliano rabbioso, doppiato da Satta Flores, dopo mezzo secolo (va detto che il signor Menniti, il “figlio della colpa”, come lo chiamava Fernando, è sempre stato piuttosto stronzo nei confronti dei film di genere che ha girato e che gli hanno dato la fama, altro vale a dire che sputava nel piatto dove mangiava), per cui in Calibro 9 gli hanno messo la faccia di Michele Placido, che funziona molto bene, per il poco che appare, all’inizio e alla fine.
La cosa divertente e piacevolmente cortocircuitante è che nel plot agisce pure uno sgherro, interpretato da Walter Cordopatri, al quale fanno fare le stesse cose che faceva Rocco Musco in Di Leo, quando nel preambolo va ad acchiappare vari tizi che sono in sospetto di essersi fottuti il danaro della ndrangheta, e con più o meno la stessa battuta tormentone: «Unne sono i soldi?». Certo, Musco là ruggiva nella fisionomia e nel doppiaggio, ma anche nel nuovo Calibro 9 questo Cordopatri lo si apprezza ed è forse il mob migliore tra tutti. Questione Marco Bocci, lanciato, anzi lanciatissimo, sulla strada del nuovo nero italiano: era regular in Squadra antimafia – Palermo oggi, ha fatto Bambola di Dominedò, poi altra serie crime, Solo, un action con la Crescentini diretto da Souheil Ben-Barka, Du sable e du feu e dopo Calibro 9 Bastardi a mano armata, sempre prodotto da Gianluca Curti. Il suo Fernando Piazza hanno scelto di farlo quasi in antifrasi al padre: Piazza Ugo era un duro, un dritto, uno che sapeva tirare di cazzotti e di pistola, mentre Bocci delinea, specie all’inizio, un furbetto, stronzetto ed edonista, un avvocaticchio della Milano che ancora è un po’ da bere, con la figa in testa e l’ambizione di mettersi in tasca soldi facili. Uno che il revolver non sa nemmeno da che parte impugnarlo. Poi, man mano che l’intrigo avanza, il personaggio diventa più ovvio, ma in fondo nemmeno tanto, anche se spara e picchia e corre con Ksenia Rappaport attraverso mezza Europa per scampare ai vari gruppi di fuoco che lo braccano. Sulle scopate che uniscono Piazza alla nipote del Gran Capo mafia, nei contesti più esplosivi, ciascuno si faccia l’idea che vuole o che apprezzi le schegge volanti al ralenti o che le si trovi il sacrificio alle cose che adesso vanno e riempiono gli occhi degli spettatori da azione prime time. A noi colpisce di più l’occhio e l’orecchio (come avrebbe detto Fernando) del regista in altre situazioni, tipo il quasi piano sequenza di Bocci che entra in una discoteca all’inizio, dove si aggira anche Rocco Musco. E non perché sia un piano sequenza (ormai qualunque filmista usa il piano sequenza), ma perché è una cosa che va a crescere, con la musica e che avvolge, come si faceva una volta e come non si fa ormai più. Purtroppo.