Candyman
2021
Candyman è un film del 2021, diretto da Nia Da Costa.
È con lui che tutto ha avuto fine, con l’ultimo autentico babau del cinema moderno. Lui, l’Uomo Nero di nome e di fatto, di api ammantato e di uncino munito con cui sbudellare allegramente coloro i quali abbiano l’ardire di invocarne cinque volte il nome dinnanzi allo specchio. Lui è Candyman, spauracchio per eccellenza delle più oscure leggende metropolitane di fine anni ’90, quando il web era ancora ben lontano dall’essere dark e la paura, quella vera, strisciava pulsante attraverso l’oscuro potere del passa parola. È con lui che si conclude la gloriosa stagione dei mostri sacri del terrore, ed è proprio con lui che, nel pieno degli anni ’20 di un Ventunesimo secolo per lo più orfano di vere icone dell’incubo, tutto potrebbe ricominciare. Questo almeno ciò che si augurano Jordan Peele, Win Rosenfeld e la talentuosa Nia Da Costa, tutti cresciuti all’ombra del terrificante mito della maledizione di Daniel Robitaille partorita dalla brulicante mente letteraria di Clive Barker e conclusasi, dopo una trilogia cinematografica dagli esiti altalenanti, giusto in tempo per il nuovo Millennio. Ma nonostante l’apparente THE END siglato a suo tempo dalla manina non particolarmente ispirata di Turi Meyer, ecco che l’ultimo grande incubo di celluloide dell’era pre social torna a vivere nella forma di un reboot che è in realtà un sequel diretto del primo terrificante e cultissimo capitolo consacrato alla storia da Bernard Rose, aggiornando l’uncinata figura che fece la fortuna di Tony Todd all’era dei creepypasta e del politically correct. Ben ventinove anni sono infatti passati da quel famigerato 1992, quando la povera Helen Lyle (Virginia Madsen), dottoranda in sociologia con una passione morbosa per le leggende metropolitane, dopo aver evocato Noi Sappiamo Chi finì per diventare essa stessa oscuro materiale da chiacchiera notturna dato in pasto agli abitanti del sordido quartiere di Cabrini-Green, che la ricordano come una rapitrice di bambini perita in un gigantesco falò nel quale intendeva sacrificare la propria neonata vittima.
Ma nonostante noi tutti sappiamo che la verità fu ben altra, il giovane artista afroamericano Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II), così come gli sbarbati pischelli della generazione Z che per la prima volta prestano occhi e orecchie, è stato cresciuto con ben altra convinzione, affascinato a tal punto dalle terrificanti storie fuoriuscite dai sobborghi di Chicago da voler indagare più a fondo per dare una sferzata alla propria creatività. Scavando nel marcio metropolitano il nostro viene a conoscenza, tramite il proprietario di una lavanderia (Colman Domingo), dell’oscuro mito di Candyman, dietro la cui incappottata e uncinata figura si celerebbe lo spirito vendicativo di Sherman Fields (Michael Hargrove), un senzatetto un po’ svitato vissuto negli anni ’70 proprio fra le scalcinate mura del malfamato quartiere e pestato a morte dalla polizia dopo essere stato erroneamente creduto responsabile di aver messo delle lamette da barba all’interno della caramella donata a una bambina bianca. Ed è così che l’incauto e nuovamente ispirato Anthony decide, contrariamente al volere della fidanzata Brianna (Teyonah Parris), di dedicare un’intera mostra a questo terrificante spauracchio metropolitano, senza tuttavia rendersi conto che il proverbiale e atavico terrore che vive dentro lo specchio, creduto morto e sepolto per sempre, è ora pronto a tornare più (non)vivo e sanguinario che mai. Mano a mano che i minuti scorrono gli aficionados di vecchia data potrebbero iniziare a provare un fastidiosa sensazione di crescente nervosismo, credendo di assistere all’ennesima implosione e distruzione delle fondamenta di una mitologia ormai digerita e consolidata, un po’ come da tempo i cugini di casa Disney sembrano impegnati a pianificare dalle loro parti. Sembra infatti non esserci più traccia del mito originario di cui gli infaticabili millennial ancora conservano memoria, di quel Daniel Robitaille a suo tempo menomato e condannato ad essere divorato dalle api per aver osato ingravidare una bianca pulzella in pieno schiavismo sudista.
L’uomo nero dei nostri incubi pare essersi volatilizzato nella notte oscura, sostituito da un nuovo alter ego non meno inquietante e assetato di vendetta, figlio della crisi petrolifera e del razzismo mai fuori tempo massimo made USA. Ma tranquilli, è solo un miraggio, poiché l’intelligente sceneggiatura di Peele- Rosenfeld-Da Costa rimescola solo in apparenza le carte in tavola, ricomponendo i tasselli di un puzzle il cui orrore finisce addirittura per moltiplicare i propri esecutori, riportandoci laddove tutto è iniziato e trasformando l’archetipo stesso del Candyman originario da semplice spirito affamato di rivalsa a simbolo della lotta di ciascun uomo e donna afroamericani contro il sistema che li opprime e li violenta. D’altronde i tempi son cambiati, ed è logico che anche l’uncinato mietitore abbracci appieno la filosofia BlackMatter poiché, laddove una mano bianca osa ferirne una di colore, quest’ultima è subito pronta a rimpolpare le fila della più terribile delle urban legend. Un’idea estremamente potente che tuttavia il giovane timone registico di Nia Da Costa, pur nella sua impeccabile fermezza, pare non essere pienamente in grado di governare a dovere, limitandosi ad apparecchiare una confezione di tutto rispetto ma priva di quei solleticanti tocchi estetici che Bernard Rose e Richard Locraine seppero a loro tempo regalarci a pieni mani. Insomma, una bollentissima e gustosa patata che nelle mani di un Jordan Peele, di un Deon Taylor e, perché no, forse anche di uno Spike Lee avrebbe potuto saziare appieno i occhi e cuore, quest’ultimo certo ancora pronto ad accogliere qualche sano sussulto ogni qual volta, tra una twittata e un selfie, il temuto nome di Candyman abbandona, così come una volta, le nostre tremanti labbra per la quinta volta.