Cannibal Vegetarian
2012
Cannibal Vegetarian è un film del 2012, diretto da Branko Schmidt.
In auto ascolta musica techno. In casa suona la batteria. Sul lavoro beve alcolici e scopa le assistenti. Ride se si parla di stupri, in discoteca sniffa cocaina e al ristorante siede al tavolo con boss mafiosi e poliziotti corrotti.
Il dottor Danko Babic è tutto fuorché un discendente di Ippocrate e mette la professione di ginecologo al servizio di chiunque possa permettersela. Le sue diagnosi sono sul mercato, pronte a salvare la reputazione di uno sbirro che ha ingravidato l’amante o a indurre all’aborto prostitute di lusso della criminalità organizzata. In cassa entra denaro contante, da reinvestire in Mercedes decappottabili e mazzette ai colleghi meno zelanti.
Branko Schmidt espande le Metastaze (2009) sociali del suo precedente film, dirottando il suo sguardo dalle frange ultrà iperviolente e reazionarie a un universo che, nel senso comune, dovrebbe fungere da ultimo fronte morale.
E invece Cannibal Vegetarian mette a nudo il vero cancro di un sistema che nella sanità trova i medesimi ammiccamenti alla delinquenza e le stesse deviazioni etiche presenti sugli spalti o nelle strade. Unica differenza: il dottor Babic ha le mani pulite.
A lui basta un click, una firma o un referto omesso per mantenere la vita o decretare il decesso con l’indifferenza di chi ha lo stomaco d’amianto. Schmidt segue il suo boia dai guanti in lattice con camera a mano, sempre più impressa sul primo piano come a voler sondare una remota ipotesi di coscienza.
Cinema reale, cinema di denuncia quello di Cannibal Vegetarian, che utilizza un linguaggio di genere ipermoderno più vicino al Pusher di Refn che non a costruzioni visive impegnate e artefatte. Niente musiche, al di fuori dei pezzi electro-balcan-pop diegetici; niente violenza diretta, se non quella strettamente necessaria.
Senza ricorrere agli eccessi gratuitamente trucidi di A Serbian Film, il regista di Osijek manda in porto un prodotto di antropologica solidità e (di)mostra quanto si possa far male anche senza indagare il sangue, concetto tanto chiaro in Croazia quanto nebuloso a Belgrado e dintorni. La carne rimane fuori anche dall’ipocrita dieta di Babic, che pranza con piatti vegetariani e ingurgita beveroni alla frutta tra una flessione e una sessione di pectoral machine. Materia clinica che scotta, la carne, rifiutata come oggetto del peccato (ma sfruttata come fonte di godimento) da un cannibale vegetariano al quale tutto è concesso.
Inserito nel tessuto ordinario dell’ospedale, il ginecologo si muove nei quadri definiti ingannando le commissioni e rovinando i colleghi, su cui scarica le responsabilità delle sue azioni criminali. Il sistema sociale non può arginarlo, dato che i suoi anticorpi (polizia, burocrazia sanitaria) sono anestetizzati dalla stessa malavita che versa cash nelle tasche del Nostro.
E allora lo premia con una promozione e un encomio, in seguito ai quali egli diviene plenipotenziario del regno, coccolato e servito persino da quell’infermiera che inizialmente lo aveva rifiutato, e ora si farà brutalmente cavalcare.
Le dinamiche del potere intrecciano quelle del machismo, in una rappresentazione estetica dell’homo erect(il)us dove i muscoli fanno il pari con l’autorità. Homo homini lupus: come tra i cani inquadrati in una lotta clandestina, anche tra i bipedi (ir)razionali vige la legge della sopraffazione. Ma esiste un confine anche per Babic, oltre il quale non è consentito spingersi. Oltre il quale ci sono l’isteria, le endovene di tranquillanti e gli interrogatori di quegli ispettori non (ancora) in vendita.
«Non sembri molto in forma, sei un tantino verde». Saranno i vegetali, la paura delle conseguenze o i rigurgiti morali? Scartiamo subito l’ultima ipotesi, ma in ogni caso il dottore cadrà in piedi e saprà sottrarsi in tempo al pericoloso gioco. Schmidt lavora su simbologie elementari – continue docce che non purificano dai peccati, inquadrature sul poster di American Gigolò a casa del ginecologo – e rimane ben piantato per terra, ricorrendo di frequente al dettaglio per esplicitare l’ambivalenza dei “ferri del mestiere” di Babic, ora tamponi vaginali e strumenti per ecografie, ora bicchieri, strisce di coca e banconote.
Cannibal Vegetarian è un film che risponde a un’urgenza, contaminando grammatica bassa e tematiche alte in un racconto ritmico di endemica insicurezza comune. Schmidt, acclamato in patria ma semisconosciuto oltreconfine, parte dal nucleo portante della malasanità per estendere il problema all’intera gestione della cosa pubblica, presentando un paesaggio urbano dall’estetica terzomondista.
Il valore attribuito alla vita è pressocché nullo, tanto dentro quanto fuori dal grembo: un messaggio coraggioso e necessario, giustamente premiato con 5 Golden Arena al Pula Film Festival (a regista, attore protagonista, direzione artistica, fotografia e make-up) e con la candidatura agli Oscar 2013 come Miglior Film Straniero per la Croazia. La nomination è caduta nel vuoto, c’era da aspettarselo, ma non sarebbe male se qualcuno srotolasse la pellicola fino alle nostre sale. Del resto la situazione, qui nello Stivale, non è poi tanto diversa, come Luigi Zampa ci aveva anticipato nel suo immortale Bisturi. La mafia bianca. Era il 1973. Sono trascorsi quarant’anni.