Carlos
2010
La mini serie dedicata a “lo Sciacallo”, in onda su FX dal 21 aprile. Ideato, scritto e diretto da Olivier Assayas, Carlos è un piccolo capolavoro di fiction tutta europea. In anteprima, la nostra recensione.
Biografia del rivoluzionario venezuelano Ilch Ramirez Sanchez, detto Carlos, che creò un’organizzazzione terrorista sviluppata attraverso il mondo negli anni ’70.
«Guardi che le cose non stanno esattamente così… La situazione era un po’ più complessa» dice Giulio Bosetti-Eugenio Scalfari a Toni Servillo-Giulio Andreotti in una scena diIl Divo di Paolo Sorrentino, stigmatizzando la ricostruzione che il Presidente del Consiglio fa del suo salvataggio del quotidiano “La Repubblica” dalle mire di Silvio Berlusconi. «Ecco, lei è abbastanza perspicace e l’ha capito da solo: la situazione era un po’ più complessa…» risponde il Divo ribaltando le constatazioni del giornalista circa le sue compromissioni con la mafia, Sindona e con gli eccellenti delitti “di Stato”. Paradossalmente, in questo passaggio del film di Sorrentino sta il senso di una operazione come quella di Olivier Assayas, la fiction tv Carlos, mastodontica biografia del più famigerato terrorista internazionale. 330 minuti di grande cinema (nonostante la matrice televisiva) che sfidano la complessità delle ricostruzioni storiche e il rischio che possano diventare un alibi per chi predilige le doppie letture, rivendicando l’inconsistenza di ogni verità.
COMPLESSITÀ 1: LA REALIZZAZIONE
Il film nasce da un’idea del produttore Daniel Leconte incaricato da Canal + e da Arte di realizzare una fiction dal budget importante basata su un episodio o un protagonista della recente storia francese. Non è escluso che il biopic su Jacques Mesrine, Nemico pubblico n. 1 con Vincent Cassel, di grande successo nell’Esagono, lo abbia incoraggiato a raccontare un personaggio negativo, un criminale, comunque figura di spicco dell’immagnario contemporaneo, nonostante il progetto di Assayas fosse addirittura precedente a quello per il grande schermo di Jean-François Richet. Carlos, al secolo Ilich Ramirez Sanchez, è di origine venezuelana ma proprio la Francia è stata teatro di alcune delle sue più efferate imprese, e proprio i servizi segreti di Parigi lo arrestarono in Sudan nel 1994. Attualmente, il terrorista sconta l’ergastolo per l’assassinio a sangue freddo di due poliziotti francesi e del suo “contatto” libanese, avvenuto il 27 giugno 1975 e noto come “l’eccidio di Rue Toullier”. Si tratta, a tutt’oggi, del solo fatto di sangue per il quale sia stato condannato in via definitiva, nonostante la sua partecipazione accertata a molte operazioni terroristiche. Protagonista del film è l’attore Edgar Ramirez, venezuelano come Carlos (ma non parente, nonostante il cognome…), strepitoso nell’interpretare la metamorfosi non solo fisica, bensì psicologica, nei vent’anni (dal 1973 all’arresto) presi in considerazione dalla fiction. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Assayas insieme a Dan Franck.
Dunque, si diceva della complessità. Prima di tutto quella della lavorazione, dell’impresa cinematografica stessa. Girato in nove paesi, tra i quali alcuni, come la Libia, non esattamente amici della Francia, e in ben sette lingue, con prevalenza di inglese, francese e tedesco, ma anche giapponese, arabo, ungherese e russo. Il vero Carlos, tra l’altro, è poliglotta, avendo studiato l’arabo e il tedesco e parlando fluentemente inglese e francese (anche il russo, ma dalla fiction non risulta).
La seconda complessità riguarda invece la documentazione e i riscontri. La vita e “l’opera” di Carlos – come dimostra una sola condanna definitiva – sono tutt’ora avvolte nel mistero. Assayas stesso ammette di avere romanzato alcune delle ipotetiche ricostruzioni delle forze dell’ordine e messo in scena alcuni episodi rivendicati dal terrorista, come i due attacchi all’aeroporto di Orly, ma per i quali non ci sono testimonianze inconfutabili e certezze. Lo stesso percorso esistenziale del personaggio è stato desunto dalle azioni per come sono state ricostruite nella sfera della fiction. Per questo è stato definito mistificante e falso dallo stesso Ramirez Sanchez, che attraverso i suoi legali ha chiesto e ottenuto di poter leggere la sceneggiatura in carcere prima dell’inizio delle riprese. Senza ovviamente avere alcun diritto di veto, anche se Leconte e Assayas hanno comunque deciso di inserire l’epigrafe che spiega come il copione sia frutto di documentazioni rigorosissime, ma che solo l’eccidio di Rue Toullier è provato e gli avvenimenti successivi, così come il ruolo dei vari personaggi incontrati da Carlos, sono stati romanzati. Alla complessità della mise en scène va aggiunta la scelta del regista di voler essere il più cinematografico possibile, alternando formati “antitelevisivi” come il 16 mm al 35, la macchina da presa a mano alla ripresa fissa. Oltre alla dilatazione dei tempi, concitati nella prima parte, sempre più riflessivi nella seconda, a sottolineare l’inattività forzata del terrorista costretto dai servizi segreti dei quali era stato “prestatore d’opera” (in particolare libici e siriani) a rimanere nascosto, di fatto a non disturbare, esecutore ormai scomodo e residuato di un mondo irrimediabilmente mutato dopo la caduta del Muro di Berlino.
COMPLESSITÀ 2: LA PSICOLOGIA
Della complessità psicologica e ideologica di Carlos, Assayas si occupa in maniera esemplare senza giudicarlo mai, anzi lasciando che la parabola da militante marxista rivoluzionario a mercenario manipolato dalle varie entità nazionali (e relativi leader, Saddam e Gheddafi in testa…) ne definiscano la metamorfosi, mettendo in rilievo le contraddizioni, la freddezza, l’irrazionale rivendicazione di un’idea rivoluzionaria che da istanza carica di significato si trasforma in vuota propaganda, mero slogan. Come quando, sul finire del film, il giornalista libanese gli chiede in cosa ancora creda e lui risponde, duro, come fosse un mantra, che la sua sola religione è il marxismo, senza che l’affermazione significhi nulla. Nel mantenere le distanze dal personaggio, consapevole che un mito, per quanto negativo, debba comunque essere destrutturato attraverso i suoi comportamenti, senza quindi analisi teoriche o pregiudizi, Assayas è anche meglio di Richet nei confronti di Jacques Mesrine.
Dove il “nemico pubblico numero 1”, infatti, rischia di diventare icona e basta, anche per il gioco all’eccesso del protagonista Cassel, il Carlos della fiction è come se a un certo punto si sgonfiasse da solo (e non si può non vedere nell’intervento di liposuzione a cui si sottopone a Khartoum una metafora beffarda!), abbandonato dai complici, dalla moglie militante Magdalena Kopp (Nora von Waldstatten), dalla figlia piccola, dagli appoggi internazionali e soprattutto dalle motivazioni, dall’ideologia, dalle “ragioni” che fecero di lui “lo Sciacallo”, un terrorista per qualcuno più vicino a Robin Hood che non a un feroce e sanguinario bandito.
COMPLESSITÀ 3: LA STORIA
Per tornare alla complessità del Divo, quella che imporrebbe di restare fuori dai “disegni imperscrutabili”, così che non ci siano mai né buoni né cattivi, né mandanti né esecutori, casomai soltanto vittime, Assayas compie un gesto cinematografico rivoluzionario. La complessità cerca di scioglierla attraverso la ricostruzione di un contesto storico preciso. In questo modo gli avvenimenti diventano credibili perché verosimili rispetto alle azioni e ai ruoli dei personaggi, oltreché all’evidenza dei fatti. L’assalto al quartier generale dell’Opec di Vienna del 21 dicembre 1975, senz’altro l’operazione più eclatante del commando di Carlos (sessanta ostaggi, tra i quali vari ministri dei paesi produttori di petrolio), oltre a essere un capolavoro di suspense, permette a chi non conosca i presupposti di farsi un’idea dello scenario. Mandante dell’operazione il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), organizzazione araba che sul finire degli anni ‘60 cercò di modificare radicalmente i movimenti resistenziali del Medio Oriente traghettandoli dal socialismo nazionalista di Nasser (leader egiziano), particolarmente appoggiato dall’Urss, a quello di marca prettamente laica e marxista. Un cambio di marcia non solo ideologico, ma sostanziale. Se infatti il nazionalismo nasseriano muoveva alla lotta armata soprattutto i ceti piccolo-borghesi e le élites, il FPLP agisce sulle masse popolari, al fine di educare contadini e artigiani all’autogoverno e alla lotta agli imperialismi, in particolare a quello “locale” rappresentato da Israele.
Carlos fu, nella lotta armata del FPLP, una pedina fondamentale, anche se in seguito, proprio per il fallimento dell’attentato all’Opec, sarà scaricato dai leader e abbandonato al suo destino di mercenario al servizio di Saddam, Gheddafi (che per compiacere il Kgb lo spingono a organizzare un attentato a Sadat) e infine Assad. Il film, pur nella sua fluviale lunghezza, non può dar conto di tutte le divisioni del mondo arabo, ma Assayas compie un miracoloso lavoro di sintesi facendo comprendere alla perfezione gli attorcigliamenti dettati dalla realpolitik del momento o il ruolo giocato dalle figure in campo (molto “compiuti” drammaturgicamente il capo operativo della Stasi, il complice tedesco dissociato dopo il dirottamento di un aereo Air France a Entebbe, dove «gli ebrei venivano separati dagli altri passeggeri come a Auschwitz», o il leader malato del FPLP, Haddad). I comportamenti dell’allora ministro degli esteri algerino (oggi Presidente della Repubblica) Bouteflika, le ambiguità iraniane e libanesi, la mediazione del Venezuela e l’assordante silenzio degli americani dicono di una situazione internazionale che non si può interpretare con le armi semplicistiche dell’ideologia e neppure valutando i singoli episodi, ma solo attraverso uno sguardo dall’alto, quale quello del cinema. Carlos, distribuito anche in una versione theatrical di 144 minuti, sarà integralmente proiettato, in anteprima italiana, al prossimo Torino Film Festival (26 novembre – 4 dicembre 2010).