Chatroom
2010
Un film di Hideo Nakata, con Aaron Johnson, Imogen Poots e Matthew Beard. Chatroom è un film horror del 2010, ed è il secondo film del regista giapponese girato in inglese, dopo The Ring 2, nel 2005.
Chatroom è, innanzitutto, il secondo film di Hideo Nakata girato lontano dai suoi lidi natali. Esploso in tutto il mondo ed entrato nella hall of fame dei cultori dell’horror con il successo della sua trasposizione cinematografica del romanzo Ringu di Suzuki e capace di creare un piccolo gioiellino come Dark Water, Nakata in seguito si è perso per strada, smarrendo quel talento che i suoi film di successo avevano forse sopravvalutato. Ha tentato di bissare il successo a Hollywood di tanti suoi colleghi dell’Estremo Oriente con The Ring 2, poi poco più di nulla.
Adesso cambia genere e aspirazioni: gira, con una produzione inglese, un thriller sociale e metaforico (ma a molti potrebbe piacere la definizione “un horror dell’anima”, altrove abusata, qui più calzante che mai) tratto da una pièce teatrale di Enda Walsch, anche autore della sceneggiatura. Un significativo abbandono al sovrannaturale, ai fantasmi e alle maledizioni, quindi, e un ritorno al passato, nelle tensioni psicologiche con cui aveva già giocato nel discreto Chaos. L’idea alla base non è neanche male: seguire con uno sguardo da entomologo le interazioni sociali che si creano in rete di un campionario variegato di reietti e disadattati. Un gruppo preso nella rete (in tutti i sensi) da un disadattato problematico, figlio di una scrittrice simil J.K. Rowling, con sane ambizioni da serial killer, che sugge quelle soddisfazioni negategli dalla famiglia spingendo i suoi simili a suicidarsi e filmarsi.
Nakata però racconta usando la mannaia piuttosto che il cesello ed eccede nel caricare di proiezioni perverse i volti nascosti della comunicazione nella rete, dipinta come un crogiuolo di pulsioni malsane e teatro senza catene della parte oscura dell’io umano, salvandosi in corner nell’eterea svolta horror con la stanza di chat Ultimo Quarto, con un angelo della morte che traghetta gli avatar dubbiosi verso il passo estremo. Se nei video dei suicidi, riciclati per convincere i dubbiosi dell’ultim ora, si può intravedere un briciolo della poetica del perturbante di cui Ringu era irrorato, per il resto il tocco di Nakata si vede poco e niente. Gli esercizi stilistici, vero tavolo su cui poteva esprimersi in totale libertà dato il tema, sono poco originali: la differenziazione cromatica tra la realtà, fotografata con toni freddi, e il virtuale, ipercolorato, era già stata esplorata nella trilogia di Matrix e, più di recente, in Gamer, mentre le ricostruzioni a passo uno delle vite disastrate delle vittime sono permeate di quel gusto dell’assurdo che molto ricorda la poetica di Wes Anderson.
Se non ci si pone troppe aspettative, rimane un thriller senza infamia e senza lode, che intrattiene ma non colpisce.