Daaaaaali!
2023
Daaaaaali! è un film del 2023, diretto da Quentin Dupieux.
Daaaaaali!. Già dal titolo sboccia un Dalì con sei A, ovvero un Dalì aumentato, sformato, frantumato. Quentin Dupieux fa un film surrealista su un surrealista. Il congegno costruito dall’ex Mr. Oizo è semplice: una giornalista interpretata da Anaïs Demoustier deve intervistare Salvador Dalì. Il maestro però rifiuta il dialogo scritto e, preso dall’egocentrismo del genio, chiede di essere ripreso come in un film da una cinepresa che sia il più grande possibile. Da lì inizia un balletto di appuntamenti mancati, un trovarsi e perdersi, fra la ragazza e l’artista. Come ovvio, siamo a distanza siderale dal biopic: nulla c’entra la vita di Dalì nella sua cronologia razionale né si riflette davvero sul suo modo di concepire l’arte. D’altronde parliamo del regista di Mandibules, protagonista una mosca gigante, e di cose come Rubber, totalmente incentrato su un pneumatico che acquista vita propria. Normale quindi che, anche alle prese con Dalì, Dupieux voglia evocare un umore, un’atmosfera, un modo di essere e perfino una corrente artistica che ironicamente confina col cazzeggio.
Cos’è arte e cos’è una cazzata? È una delle tracce implicite del film, pieno di tricks e sorprese, svolte impossibili e curve oniriche. Basti guardare l’incipit: un pianoforte che si rivela essere una fontana ricorda un Ready-made e così ci introduce alla dimora di Salvador, una stanza delle meraviglie, una wunderkrammer in cui tutto può succedere. Lo stesso pittore viene incarnato da vari attori diversi e dunque muta continuamente forma, diventa più giovane o più vecchio, cambia anche le modalità di interpretazione: ne risulta a tratti un Dalì più pacato e a tratti un “Dalì che fa Dalì”, ossia un condensato dei noti tic e atteggiamenti sopra le righe del personaggio. Ecco che il caleidoscopio di Dupieux mantiene un ritmo indiavolato per 79 minuti, con una girandola di trovate che non dà tregua, finendo per appagare l’occhio e la testa. Si inizia con Salvador che arriva nell’hotel per l’intervista, percorrendo un corridoio potenzialmente infinito (e ha sempre più sete…), mentre la cronista lo attende e all’improvviso deve pisciare. È solo il principio. Per non parlare di quanto accade dopo, che trova il culmine nel sogno del prete, sequenza ripetuta in loop che diventa un sogno dentro un sogno dentro un sogno… Dupieux mette in parodia il cosiddetto cinema onirico, quello che per pigrizia chiamano “lynchiano”, prendendolo amabilmente per il culo attraverso una ripetizione infinita.
Allo stesso modo, la reiterazione si applica nel momento della fine, quando la classica scritta FIN appare sullo schermo, ma è vietato alzarsi davvero. Il riferimento principale del francese per sua stessa ammissione è Luis Buñuel, specialista nell’arte del sogno. Ma a mio avviso è un cinema che prende Alain Resnais e lo frulla nello scherzo del contemporaneo, sapendo che oggi è impossibile prendersi sul serio. Un cinema che sfiora lo sguardo di Michel Gondry e per certi versi lo supera, perché non gioca di accumulo come il collega – vedi l’ipertrofia surrealista di Mood Indigo – e consegna oggetti meno “pesanti”, brevi e veloci, un viaggio folle di ottanta minuti che si assume come un trip. Ci sarà chi dirà: “Ma non si capisce un cazzo dell’artista”. È proprio così. Qui non interessa Dalì in sé ma l’esercizio surrealista, beatamente fine a se stesso. Risultato? Il Dalì di Dupieux è infinitamente superiore allo scialbo ritratto senile Daliland di Mary Harron, uscito l’anno scorso. Daaaaaali! insomma spacca la superficie del Festival di Venezia, la medietà generalizzata, proponendo qualcosa di completamente diverso. Spasso e risate in sala. Dupieux è l’ultimo surrealista. O il primo alieno di un cinema differente, che ama il suo pubblico, che sa sfotterlo e farlo divertire. Orgogliosamente fuori concorso.