Daisy Diamond
2007
Cosa succede quando la carriera viene anteposta all’amore materno? Noomi Rapace in Daisy Diamond, il nuovo film di Simon Staho.
Daisy Diamond è un film orrendo solo nel senso che ci fa increspare i peli della nuca, che di fronte alle immagini si ergono come spighe di grano. Horrent, appunto. È un film che vorremmo non avere mai visto, per non doverci poi continuamente pensare, per non sentircelo continuamente ficcato da qualche parte nel corpo e nella mente, che fa un male tremendo. È un film, contempo, che tutti dovrebbero conoscere, quantomeno sapere che esiste e di che parla, come Salò. In un Nocturno recente lo abbiamo scelto per rappresentare la rubrica Lesborama, perché c’è una scena dove la protagonista Noomi Rapace accetta le avances di una lesbica di mezza età che se la porta a casa e la incula (no, non è volgarità gratuita, se dicessi sodomizza non passerebbe la forza e la violenza macabra della scena: incula e basta) con un godemiché, senza soddisfazione per nessuna delle due. Un po’ adesso, ripensandoci, c’è da vergognarsi di avere predato il film di quella sequenza, perché rischia di fare apparire Daisy Diamond quel che non è affatto, un film per guardoni. O forse un po’ lo è anche, come Salò. E questo turba ancora di più…
Appunto, ma cos’è Daisy Diamond? Qualcuno chiama in causa Lynch, Mulholland Drive, per la mancanza di soluzione di continuo tra la vita e la finzione scenica. Ma Daisy Diamond può c’entrare con Lynch quanto Euripide c’entra con il cyberspazio. Anna, una Noomi Rapace che in un universo ideale prenderebbe un Oscar, mentre nel peggiore dei mondi possibili viene conosciuta grazie alla trilogia di Millenium, è distruttiva. Cerca di non essere, di cancellare se stessa in un ruolo, qualunque – attrice, pornoattrice, escort, bambola gonfiabile – come ha cancellato le urla della sua piccola nell’acqua tiepida di una vasca da bagno. Evade da sé e qualunque cosa va bene. Il suo è uno strano cupio dissolvi, che avrà successo solo nel momento in cui porterà sulla scena la sua storia, quando tornerà a essere Anna. Lì il cerchio si chiude, anzi si quadra e Anna, che non ce l’aveva fatta a saltare nel vuoto, può finalmente sprofondare nella sua tomba d’acqua tiepida.
Simon Staho, il regista è un danese. Ormai le cose più interessanti nel cinema arrivano tutte dai Paesi del Nord. Staho, classe 1972, racconta con rigore, essenzialità, freddezza e allo stile chiama in appoggio il colore e lo spazio, il bianco e l’equilibrio scenografico, fotografico, recitativo tra pieni e vuoti. Asciuga tutto quello che può, insomma, scavando alla ricerca di un valore ultimo, essenziale. Come Anna, che va cercando la pietra filosofale della propria esistenza con azioni sottrattive, l’affogamento di Daisy, l’annichilimento e la riduzione di sé a oggetto, suggellato dal taglio cerimoniale dei capelli. Prodotto dalla Zentropa di Von Treier, Daisy Diamond è stato finora lettera morta nei festival italiani, di una distribuzione non c’è nemmeno da parlarne. Ma alla data in cui scriviamo (marzo 2010), se ne annuncia un passaggio all’11° Festival del cinema europeo di Lecce, di qui a un mese.