Day of the Dead
2008
Day of the Dead è un film del 2008, diretto da Steve Miner
Diciamocelo subito, il disguido è fondamentalmente comunicativo. Qui c’è il solito furbetto che, credendosi un genio, ha venduto un prodotto per ciò che non è. Day of the Dead è un bel film, ma non c’entra nulla con l’omonimo di George A. Romero, anche se l’Internet Movie Database e di conseguenza tutti gli altri siti, a grappolo, ne hanno parlato come di un remake. Viene da chiedersi come siano andate realmente le cose, se sia stato un errore, un’avventatezza, o se invece in principio fosse stata seriamente caldeggiata l’ipotesi di un rifacimento. Alla fine Steve Miner s’è dato la zappa sui piedi, e giù a dargli botte da orbi per punirlo di una colpa che magari manco è sua. Dispiace per lui, e dispiace soprattutto per il film che, confinato in home-video, non ha nemmeno beneficiato del canonico passaggio cinematografico. Premesso questo, Day of the Dead merita, e merita molto. Perché è un film viscerale, che non fa sconti a nessuno e quando colpisce ci dà sul pesante. In effetti c’è molto più di Umberto Lenzi che di Romero e se Incubo sulla città contaminata è, in un certo senso, la partitura che determina il ritmo delle danze, tutta la pellicola è un brulicante intrecciarsi di riferimenti e allusioni trasversali.
Day of the Dead saccheggia a piene mani il cinema horror classico e meno classico, se lo mangia pezzo per pezzo e lo assembla su di sé, mutandolo e mutandosi in qualcosa di stravagante, sintetico, artificialmente indefinibile. Nella centrifuga si vede davvero di tutto, dalla stazione radiofonica di Pontypool fino agli zombi allenati di 30 giorni di buio. Quelli erano vampiri, d’accordo, ma i mostri di Miner si sono adattati alle ultime mode, e hanno preso dai loro cugini l’arte del salto in lungo. Dopo essere stati a lezione di atletica da Danny Boyle o Zack Snyder. Insomma, anche lo zombi ha cambiato i connotati, presentando in questa sede la stratificazione di pulsioni e inclinazioni del più recente cinema della paura. Che resta del suo presunto padre putativo? Nulla, tranne un Bud (e non Bub) vegetariano e innamorato della bella Mena Suvari (il cui personaggio si chiama Sarah Cross e non Bowman, se non nei titoli di coda dove, chissà perché, cambia nome). Manca totalmente il sottotesto politico, con buona pace dei contestatori, perché non è questa la sua finalità.
L’opera di Miner punta all’intrattenimento puro, senza pretese intellettuali o velleità socio-politiche a condirne i risvolti, e soltanto sotto questa luce va vista e compresa. Il modo migliore per accostarvisi è, perciò, sgomberare la mente da pregiudizi e confronti; individuarne citazioni e riferimenti, ma senza fare di questo aspetto il suo motivo di sussistenza. Day of the Dead è e resta un riassunto polimorfo, una fusione, una sincrasi di diverse tradizioni che convivono, fanno a pugni, alla fine raggiungono un punto di compensazione, un accordo forse non di collaborazione ma almeno di reciproca non belligeranza. Di carne al fuoco ce n’è molta, magari si rischia il colesterolo, ma per principio non si rinuncia a una luculliana mangiata. Buon appetito.