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The divide

2012
Titolo Originale:
The divide
REGIA:
Xavier Gens
CAST:
Lauren German
Michael Biehn
Milo Ventimiglia

Il nostro giudizio

Il capolavoro di rigore stilistico che attinge all’immaginario sci-fi più catastrofista per poi trasfondersi in puro orrore claustrofobico.

The divide, diretto dall’enfant prodige del recente horror francese, Xavier Gens, è un grande incrocio a piani sfalsati, la cui architettura barocca, confusionaria, sanamente caotica, se vista in superficie lascia spiazzati tanto gli spettatori quanto gli utenti, ma che invece, se analizzata dall’interno, nella percorribilità di arterie solo all’apparenza complesse, risulta dotata non soltanto di notevole bellezza, ma di necessaria, fatidica funzionalità. Il suo cinema è come un grande esercizio di stile, per così dire, che si regge in equilibrio sottilissimo e funambolico su una serie di intuizioni che riescono a innestarsi l’una nell’altra, formando un’epidermide mutogena, a tratti rabberciata, ma dove l’orrore raggiunge comunque una sua lucidissima eccellenza congiunturale.

The divide comincia infatti come un clone ragionato di tanto cinema da fine dei tempi, poi però, quando sembra di assistere all’ennesima pellicola da The Day After, ecco che abbandona le sue referenze sci-fi per trasfondersi in crudeltà freudiana alla Cabin Fever, claustrofobica, racchiusa nella palpitante follia di uno spazio sigillato, un cul-de-sac polanskiano dal quale non si può (né si deve) uscire. Ci sono questi sopravvissuti che, sotto l’egida di un misterioso custode (Michael Biehn, aka Kyle Reese di Terminator), si ritrovano a condividere lo stesso ambiente sociale e le stesse provviste, pur sapendo che il vettovagliamento, per quanto razionato, sarà presto destinato a finire. Cominciano allora i primi, nevrastenici screzi, le ripicche, le più vibranti accuse reciproche, fino a quando l’ossessione per la vita si trasforma in inesorabilità della morte, e l’esigenza di sopravvivere fisicamente si rovescia nella necessità di abusare dell’altro (emotivamente e sessualmente) pur di conservare la sanità mentale. The divide diventa allora metafora di una micro-società neotribale, in cui si combatte per gli scampoli di cibo, il possesso delle donne, e in cui i più forti si alleano tra di loro, eliminando i deboli e spartendosi quel che resta.
Allora il film si squarcia a metà, si taglia in frammenti schizofrenici e bizzosi, e nelle sue fessure si impiantano visioni distopiche alla Vincenzo Natali, con camere iperbariche, incubatrici-feretri che cullano bambini chemioterapici, aggrovigliati tra tubazioni e connessioni elettriche, e sprazzi manicomiali degni di Floria Sigismondi. Appena ti convinci di lambire le sponde più periferiche de La notte dei morti viventi, con la sua spietata lotta per il potere e la supremazia del maschio, comprendi invece di essere caduto nel ventre spigoloso di un The Descent virilmente compiaciuto e sanguinario, e quando credi di aver trovato una via d’uscita, ti accorgi che la furfantesca genialità del suo demiurgo ti ha appena spedito in un labirinto ancor più ramificato. Il ritmo di questo pellicola asmatica e convulsa si fa a tratti videoclipparo, con visioni mortifere a cavallo tra arte e mattanza da Grand Guignol, manichini feticcio tutti imbrattati di rossetto e sgualciti abiti muliebri, teste rasate ed epidermidi butterate dalle radiazioni. L’ammucchiata di Calvaire è d’obbligo, ma è solo l’antipasto che prelude al massacro completo. Gens stabilisce i parametri di un teorema che non ha difficoltà a dimostrare: quando all’isolamento si affianca la certezza di un’agonia infinita e centellinata, le pulsioni più primitive dell’essere umano non tardano ad obnubilare la ragione.
Il vero scarto di qualità è comunque la regia, solidissima, tutta giostrata sulla sinuosità di inquadrature che a tratti ricordano l’incipit di Alien, i piani sequenza morbidissimi che indagavano le viscere del Nostromo, e a tratti si fanno vertiginose come il più virtuoso manierismo hitchcockiano: dai tuffi per le scale, durante il bombardamento, all’ingresso nel rifugio sotterraneo, all’impareggiabile finezza di spostamento, tra volti terrorizzati, crisi di nervi, spietata inquietudine. Gens è un maestro della forma che, dopo i fronzoli spartani di Frontiers, raggiunge la profondità nel prestigio tecnico, e la delicatezza narrativa nella più spietata violenza stilistica.
 
I pochi sopravvissuti, dopo aver ammazzato i compagni chi per una ragione chi per l’altra, tirano a sorte per accollarsi l’ingrato compito di macellarne i cadaveri e gettarli nella tazza del cesso.