Eat it
1968
Eat it è un film del 1968, diretto da Francesco Casaretti.
Unico film dello scrittore Francesco Casaretti, per anni regista teatrale e televisivo, oggi grande esperto di taoismo e medicina cinese. Conosciuto anche, nel mercato dei Super8, come L’industriale. Da inserire nel filone surreal-contestatario, tra favola nera e fantascienza, un po’ sulla scia dei primi film di Faenza, a cui si avvicina per la critica esasperata e grottesca alla mercificazione dell’individuo, e un po’ in anticipo su La ragazza di latta di Aliprandi o Hanno cambiato faccia di Farina, con cui condivide lo stesso parossistico grido d’allarme contro i meccanismi di persuasione occulta della pubblicità. Operazione comunque delirante, costruita attorno alle solite musiche di Ennio Morricone, immancabile marchio di tutto un cinema sessantottino che fu, e contrassegnata da un apparato visivo folgorante, gestito dal trio di direttori della fotografia Giuseppe Ruzzolini, Luigi Kuveiller e Danilo Desideri, e dalle scenografie assolutamente sopra le righe di Giorgio Giovannini (art director anche in Escalation di Faenza). È qui che il film gioca le sue carte migliori, azzardando nel design minimalista e nelle architetture automatizzate degli uffici ultratecnologici della ditta produttrice di “Eat it”, un nuovo tipo di carne in scatola gelatinosa e marrone.
Spicca ovviamente la poltrona in plastica gonfiabile Blow (1967, De Pas, D’Urbino, Lomazzi), vero oggetto di culto per l’art design italiano del tempo, immancabile nei salotti borghesi di decine di film bis e non, qui usata come insolito giaciglio per la nonnina lobotomizzata dalla tv che trasmette solo gli intervalli Rai (in una scena che sintetizza in modo geniale lo stridore tra vecchio e nuovo, sottotesto portante del film). Spiccano inoltre le vernici Tintal, abusate da tanto cinema pop del periodo e già da Antonioni nella sequenza della fabbrica in Deserto rosso, qui stese a larghe campiture a ricoprire di uniforme rosso e giallo accesissimi i muri della fattoria di Giampiero Albertini e famiglia. Come esordio di Paolo Villaggio, invece, il film non vale granché. L’attore genovese passa in secondo piano non solo rispetto al contesto iconografico che gli è stato costruito intorno, ma anche come importanza di cast, visto che protagonista assoluto risulta piuttosto Frank Wolff, qui nel doppio ruolo dello spietato industriale della ditta di carne in scatola e in quello dell’ominide primitivo e muto ridotto agli istinti primari (mangiare e fare l’amore), utilizzato proprio in funzione del suo famelico e insaziabile appetito, che gli consente di deglutire uno dopo l’altro decine di barattoli di carne, per poi lanciarsi tra le braccia della fanciulla appetente di turno.
Da cui lo slogan: “Chi mangia Eat it dura più a lungo”, coniato dai pubblicitari al servizio dell’industriale – e tra questi proprio Villaggio – in spot sempre più astratti che vedono Mr. Eat alle prese con quintali di scatolame e donnine assortite. Curiosa la presenza di una muta, seminuda e ancheggiante Silvia Dionisio, figlia di Giampiero Albertini, che con la sorella della stessa età passa il tempo a ballare svogliata con la radio portatile, passando da una stanza all’altra, fino a cadere preda degli afrodisiaci poteri di cui è dotato il primitivo. Molto buffi i titoli di testa a cartoni animati realizzati da quel Vittorio Vighi, disegnatore e sceneggiatore, tra le altre cose, oltre al mitico Sturmtruppen, del misterioso Espi…ando (1966), assieme a Bruno Corbucci, e dell’altrettanto raro La profanazione (1976), di Tiziano Longo.