Everybloody’s End
2019
Everybloody’s End è un film del 2019, diretto da Claudio Lattanzi.
Arriva finalmente la resa dei conti con Everybloody’s End, il film di Claudio Lattanzi che attendevamo al varco. Lo attendevamo perché Lattanzi proviene da quel mondo antico del bis che ci piace assai (Killing Birds – Raptors e l’assistentato a vari classici di Soavi) e perché l’idea di riproporre un terno di gloria nelle persone di Giovanni Lombardo Radice, Cinzia Monreale e Marina Loi era tentante. Il film, scritto da Antonio Tentori, è collocato in un futuro dalle tinte metalliche, in un mondo devastato da una non meglio precisata epidemia. Alcuni sopravvissuti, un teologo (Radice), tre donne (la Monreale, Veronica Urban e Nina Orlandi) e un uomo (Lorenzo Lepori) convergono nel medesimo luogo, forse per caso forse rispondendo a un disegno nascosto nelle pieghe degli eventi. E come in un atto unico teatrale, tra le pareti spoglie di quell’avamposto desolato, si giocheranno i destini dei cinque e con essi dell’intera umanità.
L’opera di Lattanzi è quasi un caso di scuola per capire cosa possa essere, oggi, 2019, il genere in Italia. Al di sopra degli indie poveri e tristi fatti da avventurieri senza arte né parte e nella ricerca di sensazioni e di atmosfere che evochino i fulgori del passato. Lattanzi punta quasi tutto, se non tutto, sullo stile, sullo sfoggio muscolare di una forma che si faccia contenuto e in questo colpisce il bersaglio: i movimenti della mdp sono ricercati ed eterodossi rispetto alla media del cinema italiano (basso o alto che sia) e tradiscono un altro magistero. Cosa stia raccontando, passa, invece, del tutto in secondo piano, tant’è che si concede scene slegate e libere come quella, simbolica e feticistica, dell’epilogo, con la vestale che abbraccia il suo dio-sposo Nosferatu in una sala cinematografica vuota (perché il genere è morto e finito, ma potrebbe sempre risorgere), che insieme alla sterminazione iniziale di Marina Loi, sono i due sigilli basilari del film. Doverosa citazione anche per il lavoro del maestro Sergio Stivaletti (rilevante un cuore estirpato dal petto), che nell’incipit si concede un cammeo (lui e suoi magnifici anelli) nella parte di uno spietato impalatore che avrà un’arcana connessione con quanto accade più avanti nella storia.