Funny Games
1997
Funny Games è un film del 1997, diretto da Michael Haneke.
Funny Games di Michael Haneke, piccolo film austriaco proiettato per la prima volta a Cannes il 14 maggio 1997, torna in sala in versione restaurata l’11 dicembre 2023, distribuito da I Wonder Classics a ventisei anni dall’uscita. Riassumere la storia è un pleonasmo, perché tutti la conosciamo bene, lo faccio per i motori di ricerca: c’è una famiglia che va in vacanza nella seconda casa, composta dal padre Georg (Ulrich Mühe), la madre Anna (Susanne Lothar) e il figlio piccolo Schorschi (Stefan Clapczynski). In programma c’è un bel weekend fra tranquilli passatempi borghesi, come giocare a golf. Alla loro porta però bussa un ragazzo, Peter (Frank Giering), che è stato inviato dai vicini per chiedere delle uova. Presto si unisce un altro, Paul (Arno Frisch). Uno più grasso e l’altro più magro, uno più maldestro e l’altro più preciso. Sembrano i giovani della porta accanto. Sono due psicopatici che prendono in ostaggio la famiglia e iniziano una serie di torture sadiche e perverse, in un crescendo di violenza senza spiegazione. Uccidono tutti.
Tanto si è detto e scritto su Funny Games nel corso dei decenni, anche troppo, spesso a sproposito. Ecco perché ora, in occasione della ri-uscita, il gesto più ecologico è quello di tornare alla sorgente, senza troppe pippe mentali, a ciò che vediamo sullo schermo. È una storia semplice: due tipi si presentano alla porta di una famiglia borghese e la massacrano. Si introducono e non li riconosce nessuno, o almeno nessuno di umano, solo un cane che abbaia. Per grimaldello usano una scusa banale, le uova, come chiedere il sale; provano le mazze da golf, l’hobby benestante per eccellenza; si producono quindi in una lunga crudeltà irrazionale, cioè priva di ragione. E ci spiazzano. Perché siamo abituati che la malvagità al cinema abbia una spiegazione, sia essa narrativa o sociologica, che i cattivi perdono o vincono. Qui c’è un ribaltamento radicale: la crudeltà inspiegata porta all’ennesima potenza il disturbo, l’orrore, lo straniamento. Alla fine i due bussano a un’altra porta e chiedono altre uova. La violenza ricomincia. La violenza è un cerchio piatto.
Va ricordato che Haneke, all’epoca 55 anni, era già un cineasta maturo e aveva girato titoli come Il settimo continente, Benny’s Video e 71 frammenti di una cronologia del caso, insomma aveva scrutato l’apocalisse della borghesia, gli abissi del girato analogico, la tragedia come puzzle di singoli tasselli. In Funny Games tocca l’epitome della sua visione, della sua provocazione: sì, provocazione, perché è un film che in senso letterale provoca, induce una reazione forte e squassante, lancia una chiamata in causa dello spettatore che viene costretto al confronto con le immagini. Così va goduto il famoso rewind, in cui la donna si libera e uccide un aggressore ma poi tutto torna indietro, e non solo. È la struttura del racconto ad essere complessivamente provocatoria, nella regia, nella sceneggiatura, negli aguzzini che dicono “nessuno si farà male” ma mentono subdolamente, già sanno che moriranno. Noi vediamo e ci chiediamo: cosa stiamo guardando e perché? Fa parte di noi o lo respingiamo, ci disgusta o ci piace?
Anche la grammatica di Funny Games è stata diffusamente analizzata: i piani fissi, la morte fuori campo, i pochi e strategici movimenti di macchina, il lancinante piano sequenza con la tentata fuga di Anna… E così via. Per non parlare della questione etica, le polemiche sulla violenza fine a se stessa, il presunto sguardo gelido di Haneke (nota bene: è sempre sbagliato lo sguardo degli altri, mai il proprio). A parte le speculazioni teoriche, quindi, ciò che preme davanti al restauro è verificare la sostanza di Funny Games due decenni e mezzo dopo. Resta intatta, naturalmente, la riflessione sulla violenza condotta attraverso immagini violente, perché Haneke rapisce lo sguardo, lo sequestra e non c’è via d’uscita. In tal senso Funny Games è uno dei pochi film che si muove nella zona di Salò, il quale però esibiva una struttura molto più stratificata, coi suoi gironi infernali a mostrare la profondità del Male, il contrario della semplicità disarmante del congegno hanekiano.
Rivisto adesso, da una parte Funny Games suona superato. Perché ormai datato è quel tipo di crudele voyeurismo, battuto dal cinismo della comunicazione, sminuito dalla storia dello sguardo che posiamo ogni giorno sulle stragi di Gaza appena sopra i gattini, dal click compulsivo su Repubblica (guarda la mamma che piange, guarda la lacrima che scende…). Tutto ciò non è forse peggio di Funny Games? La pornografia del dolore si è avverata, non è più una fosca profezia, è solo il presente. Dall’altra parte però di Funny Games abbiamo ancora bisogno. Nell’epoca del nuovo moralismo, della prescrizione etica scandita col ditino alzato, dei Moretti di turno che decidono come va filmata la violenza, l’antidoto è tornare proprio al film di Haneke: allora viva Funny Games coi suoi giochi sadici e perversi, che ci mostra come la violenza senza spiegazione fa parte di noi, della vita e quindi del cinema, e ci dà la possibilità di guardarla in faccia senza il comodo alibi del clickbait sulle ultime notizie. Un film ancora oggi pericoloso, che evita la trappola dell’etica e non manca di rispetto a nessuno, anzi sprigiona il rispetto massimo per il cinema e per chi lo guarda senza pregiudizi.