Giurato numero 2
2024
Giurato numero 2 è un film del 2024, diretto da Clint Eastwood.
Cos’è la giustizia? Anzi la Giustizia con la maiuscola? Coincide con la verità oppure è tutta un’altra cosa, inventata dagli uomini per rassicurare se stessi e mantenersi comunità? Pare facile… Un tema grande, più grande dell’uomo è al centro dell’ultimo film di Clint Eastwood, Giurato numero 2 nelle sale italiane dal 14 novembre 2024, concluso dal regista a 94 anni. Un tema totalmente fuori tempo, nell’epoca social del pensierino da banco, a ritorno immediato, una sfida che non osa più nessuno; forse serviva davvero una persona che ha raggiunto quasi cento anni per rimettere il Tema in mezzo al tavolo, al centro di un film, davanti agli occhi. Perché questo è Juror #2 che, seppure sceneggiato da Jonathan Abrams, gioca tutto sul piano dell’immagine a partire dal primo fotogramma: la dea bendata. Quella che i greci chiamavano Dike, venerandola come divinità, che i romani appellavano Iustitia, raffigurandola con una bilancia e una spada, tanto equanime tanto terribile. Da sempre, cioè dall’inizio della sua costruzione grafica, la dea porta la benda perché non guarda in faccia nessuno: ma è davvero così? Oppure è l’uomo, siamo noi, a manipolarla secondo la sua particolare convenienza? Questa ipotesi ci viene immediatamente suggerita da un raccordo di montaggio perfetto e ineffabile, di nitore assoluto: la benda della statua che “diventa” benda sugli occhi di Ally (Zoey Deutch), la moglie incinta del protagonista che viene condotta verso una sorpresa, la cameretta del nascituro arredata ad arte dal consorte. C’è quindi un uomo che manovra una donna bendata.
E il protagonista è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un tranquillo padre di figlia che aspetta la gioia di una nuova nascita; proprio in quella fase viene convocato a fare il giurato in una giuria popolare, nel processo per omicidio contro James Sythe, un uomo dalle tendenze criminali che si trova ora alla sbarra perché ha assassinato brutalmente la sua ragazza Kendall; o forse no… Le prove sono forti: visti discutere in un locale, i due si sono esibiti in un aspro litigio davanti a molti testimoni, poi la giovane è scappata sotto la pioggia e lui – a quanto pare – l’ha seguita. Il ritrovamento della povera ragazza morta sulle rocce di un torrente lascia pochi dubbi. Però… Il giurato numero 2, Justin, conosce la verità: si rende conto che proprio quella notte era nello stesso pub di Sythe, da buon ex alcolista, guardando il fondo di un bicchiere senza berlo a causa di una crisi personale. Mentre guidava nel diluvio aveva urtato “qualcosa”, ma senza preoccuparsi troppo, anzi liquidandolo come il classico cervo. E se invece fosse stata Kendall? Se il delitto volontario accollato all’imputato fosse in realtà un omicidio stradale del giurato, aggravato dalla fuga senza soccorso? Non è spoiler, questo, perché la scena in flashback appare subito nella mente di Kemp, dunque al nostro sguardo, solo dopo parte la sostanza del racconto.
L’accusa e la difesa offrono due versioni opposte e speculari, esposte in aula in montaggio alternato. La stanza della giuria va verso la colpevolezza, ma proprio il secondo giurato solleva un’obiezione: bisogna almeno esaminare a fondo il caso, prima di mandare un uomo all’ergastolo… Da una premessa simile a La parola ai giurati di Sidney Lumet, e dei tanti processuali che ne derivano, ecco germogliare un percorso molto diverso: qui l’oscillazione è totale, nessuno convince nessuno, viene negata la condanna in favore di uno stallo alla messicana. Intanto, dalla coralità del meccanismo processuale, emergono alcuni personaggi: uno di questi è Harold (J.K. Simmons), ex detective che avvia indagini in proprio e finisce per suggerire la pista del pirata stradale. Ma la figura memorabile è quella della procuratrice distrettuale raffigurata in Toni Collette: prima elemento mimetizzato nel contesto, ossia la classica accusa, gradualmente acquista una posizione di primo piano; prima accusatrice inflessibile anche per motivi politici, poi inizia leggermente ad essere sfiorata dal dubbio… Ecco, è un film sul dubbio Juror #2. Su cosa è giusto è fare, come bisogna vivere, qual è davvero la strada migliore. Se un delinquente abituale marcisce in galera – omicidio o meno – e un bravo padre di famiglia coccola il figlio neonato, alla fine che problema c’è? E invece no… Al tempo del lassismo generale, Eastwood invita ancora una volta a prendersi le proprie responsabilità perché è l’unico gesto che ci caratterizza umanamente. A chiudere il cinismo e riaprire il libro dell’etica. Come sempre il rovello morale è centrale, ma qui si fa particolarmente struggente perché arriva oggi, nell’epoca del True Crime e delle chiacchiere tra innocentisti e colpevolisti, entrambi citati, del rumore di fondo per distogliere dal fulcro, il nocciolo, l’unica cosa che conta. Tutto ciò appare luminoso nell’immagine finale: Toni Collette come statua di carne, come incarnazione della dea bendata diventata umana dopo aver attraversato il paesaggio del dubbio. Un’immagine definitiva, che potrebbe chiudere il cinema eastwoodiano perfino più di Clint stesso, del mulo che trasporta droga o del tardo autunno di Cry Macho. Guardate la statua della dea bendata: al contrario della consueta rappresentazione cinematografica, marmorea, verso la fine qui la bilancia della giustizia oscilla, subisce un colpo di vento e ne sentiamo il clangore, si muove leggermente. Ci invita al dubbio prima della scelta. Non può essere un caso.