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Glory Hole

2024
Titolo Originale:
Glory Hole
REGIA:
Romano Montesarchio
CAST:
Francesco Di Leva (Silvestro)
Mariacarla Casillo (Alba)
Mario Pirrello

Il nostro giudizio

Glory Hole è un film del 2024, diretto da Romano Montesarchio

L’ultima cosa di cui Glory Hole ha bisogno, è di essere introdotto e “spiegato”. Nemmeno ha bisogno di essere contestualizzato, semplicemente perché non esiste in questa repubblica bananiera italiana (cinematograficamente parlando e non solo) contesto in cui porlo. È un film che basta a se stesso e che spiega se stesso. Fuori dal contesto. Certo, poi ci saranno quelli che chiameranno in causa thriller, neri, romanzi criminali e gomorre, perché i film assoluti spiazzano e c’è sempre bisogno di lanciare uncini a destra e a manca per agganciarsi al noto: è normale. Ma fuori dallo scomodare il dio Sollima (e solo per un puro giudizio di valore e per l’assolutezza, beninteso), a definire Glory Hole c’è solo Glory Hole. Vi si narra di un piccolo faccendiere della camorra, Silvestro, uno smaltitore di rifiuti tossici, che appare in fuga da qualcosa. Qualcosa e qualcuno che non si sa né cosa né chi siano. Francesco Di Leva è questo Silvestro, che in breve giro di sequenze si porta presso un prete, un amico (Mario Pirrello), il quale a sua volta lo accompagna da un terzo, Roberto De Francesco, gestore di un locale notturno (ambiguo, lui e il posto in cui manovra, è dir poco). Della spada di Damocle che Silvestro ha sulla testa, continua a non trapelare nulla. Con la scorta del sacro e del profano, dunque, l’uomo viene fatto riparare in un rifugio, un bunker interrato, all’interno di costruzioni in rovina. Nel Nulla. I due Caronti lo salutano e se vanno. Lui chiude il portello di accesso. Sul nero. E si addentra nel luogo infero, nel mondo di sotto. Nel rosso.

Romano Montesarchio insiste sul fatto, simbolicamente e prima ancora fisicamente, che stiamo camminando con Di Leva sull’orlo di un abisso. E lo scarlatto che domina là sotto predisporrebbe a qualcosa di subito straniante. Invece, il regista fa machine arrière, e cambia passo, con la prima delle mosse a sorpresa. Torna ai colori nudi e reali della nuova casa che accoglie il nuovo occupante. E gli sta addosso accompagnandolo nella riedificazione e nel riordinamento dello spazio. È il banale che non è affatto banale ma si fa racconto ipnotico nel vero e nel possibile. L’anima da documentarista che emerge, suppone di sé Montesarchio. Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles, della Ackermann, se proprio devo sputare quel che mi balzava in testa di fronte a questi passaggi. Sono calci in bocca a quella stupida frenesia dominante ovunque, che ridanno valore al tempo. Che qui è ancora quello lineare, prima che cessi di scorrere e si arresti. E da lì si aggrovigli e torni a piegarsi su se stesso. Il concetto potrebbe anche sembrare semplice: “Isola, ingabbia un uomo (meglio se un uomo “torturato”) e togligli ogni riferimento esterno; sprofonderà dentro sogni e ricordi”. Va benissimo, ma bisogna saperlo narrare (cioè scandire) il tempo del caos, che mescola il reale e il fantastico, amalgamandone i colori – un elemento essenziale del film. Saperlo raccontare con il gioco di incastri che offre Glory Hole. Il recupero della memoria, da una parte, che va man mano a chiarire perché l’uomo sta scappando. E il varco a doppio senso dall’altra: il buco (un buco in una parete ha anche materialmente rilevanza, nella storia), lo sfiatatoio da cui evadono le fantasie e penetrano i demoni. I quali si presentano, sempre, puntuali, a esigere il saldo.

“A ciascuno di noi è destinata una donna. Se riusciamo a sfuggirle, siamo salvi”, opinava cinicamente Samuel Butler. “Ognuno cerca di fuggire da se stesso, ma non arriva mai a farcela”, sentenziava Lucrezio. Cui aggiungiamo come terzo Sant”Agostino: “Fuggi verso di lui, quando vuoi da lui fuggire”. In questa triangolazione di concetti, si agita il nucleo duro di Glory Hole. C’è una donna, una ragazza, Mariacarla Casillo, alla base di ciò che il regista chiama il “peccato originale” (e facciamo nostra la definizione) di Silvestro. Una figura femminile che, come gli altri personaggi, sta del tutto fuori dall’ovvio. Lei lo ha posto al bivio, cederle o sfuggirle, ma cederle (scelta obbligata) significa al contempo l’impossibilità di fuggire da sé. La terza strada che l’uomo imbocca, segue, perversamente e fino alle estreme conseguenze, il consiglio agostiniano. “Fugge verso la ragazza”… e si ritrova all’inferno. Non c’è altro da dettagliare e spiegare. Il colpo di coda degli eventi è magnifico nella sua assolutezza (ma due sono i fulmini conclusivi, l’ultimo confidato a un lungo, straordinario monologo che reca luce nelle tenebre), cioè nel valore di atto che si è liberi di riempire come meglio si crede. Ma guai a pensare che queste astrazioni restino tali, perché prendono corpo e carne e materia (regia, soluzioni fotografiche, un parco interpreti perfetto, Di Leva in primis e gli altri a seguire) dentro un film profondo ed estremo, veloce e preciso. Persistente dopo la visione, come ormai non accade quasi più. Ed è un fatto notabile.