Hagazussa
2017
Hagazussa è un film del 2018, diretto da Lukas Feigelfeld.
Il termine in alto-tedesco antico “hag(a)zussa” pare sia la radice del moderno “hexe” e cioè “strega”. In questo senso il lungometraggio d’esordio di Lukas Feigelfeld è chiaro sin dal titolo. Hagazussa parla di streghe, ma l’accostamento naturale al bellissimo The Witch di Robert Eggers rischia di fagocitarlo in un paragone che non gli rende pienamente giustizia. Il film di Feigelfeld è, infatti, capace di spogliarsi da etichette, generi e visioni d’intrattenimento, scivolando lentamente in un’opera cinematografica che diviene esperienza visiva, sensoriale ed emotiva. La storia di Albrun (da Alp, demone del folklore germanico e run, riconducibile a saggio), che percorre in quattro capitoli la vita dalla sua infanzia all’età adulta, è un lento viaggio nell’inquietudine di un’esistenza spezzata, nella sofferenza che porta a convincersi di essere proprio ciò che gli altri temono e disprezzano. Devota a una madre vecchia e malata, Albrun si ritrova adulta con una figlia il cui padre non è mai svelato, causando il protrarsi delle dicerie che colpiscono da sempre la sua famiglia. Voci e soprusi alimenteranno un’oscurità che mai chiaramente si delineerà reale o sintomo di un disagio interiore.
Tuttavia facciamo subito chiarezza: Hagazussa non è un film per tutti. Lo spirito quasi ermetico che ne caratterizza la narrazione è lontano anni luce dai film horror, o accostabili al genere, usa e getta da botteghino. I dialoghi centellinati con cura certosina da Feigelfeld costringono all’attenzione per ogni dettaglio, suono, movimento e Aleksandra Cwen, nel ruolo di Albrun, regala una performance potente e feroce, un pugno dritto nello stomaco. La solitaria vita alpina, scandita dai cicli della natura, potrebbe rappresentare l’idilliaca vita di una Heidi dei secoli passati, non fosse per l’ombra funesta della Grande Morte, la peste che colpì l’Europa a metà del quattordicesimo secolo, uno spettro che si intromette nella già tormentata vita di Albrun. In aggiunta al bigottismo cattolico dei popolani, la cattiveria e falsità delle persone, vere cause della discesa agli inferi della protagonista. Feigelfeld punta il dito e lo fa con brutalità: se l’ignoranza e la paura trasformano gli esseri umani in mostri, anche le vittime dei loro soprusi possono subire analoga sorte.
E in questo quadro dal sapore fiammingo e dalle pennellate gotiche si innesta l’intimismo imperante di Hagazussa, dove la fotografia disegna paesaggi splendidi e inquietanti, un mondo sospeso tra realtà e sovrannaturale. È difatti impossibile dissezionare l’ambiguità con cui si dipana la storia, in una assenza di linearità che acuisce il dubbio su ciò che si sta guardando: bene e male, tangibilità e allucinazione, dove finisce uno e inizia l’altro? L’annichilimento umano attraversa orrori indicibili prima di compiersi, il viaggio verso il maligno non è però prerogativa di chi viene additata ingiustamente come strega, ma anche e soprattutto di chi si erge a giudice, giuria e paladino di una verità distorta. Regia, sceneggiatura, fotografia, interpretazioni, ogni cosa qui è volta a destabilizzare lo spettatore, a gettarlo in un incubo visivo dove non è importante capire cosa nasconda l’oscurità. Ciò che conta è comprendere come sia l’ignoto a creare streghe, demoni e quant’altro. Insomma, se da una parte il respiro primordiale della Natura possiede una sacralità fatta di luci e ombre, dall’altra è vero che il sonno della ragione genera mostri.