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Harvest

2024
REGIA:
Athīna Rachīl Tsaggarī
CAST:
Caleb Landry Jones (Walter Thirsk)
Harry Melling (Charles Kent)
Rosy McEwen (Kitty Gosse)

Il nostro giudizio

Harvest è un film del 2024 diretto da Athīna Rachīl Tsaggarī.

Hate was just a legend
And war was never know
The people worked together
And they lifted many stones
Cortez the Killer – Neil Young

Quando ho letto l’ultimo titolo del film in concorso a Venezia81 di Athina Rachel Tsangari, ho subito pensato a Neil Young e alle sue due canzoni: Harvest e Harvest Moon, ma se dobbiamo fare dei parallelismi tra quest’opera e la discografia del cantautore canadese descriverei Harvest come – volendo essere generosi – l’equivalente visivo di Cortez the Killer. Tsangari prende il libro di Jim Crace e prova – come ha detto la regista in conferenza stampa – a creare un western in una Scozia che potrebbe essere qualunque posto e l’epoca è indefinita ma dovrebbe essere nel tardo Medioevo. Ma Harvest è assolutamente un anti-western perché qui non ci sono frontiere da cercare, conquistare e sorpassare, ma c’è una volontà ferrea di chiudersi fuori dal mondo industriale per crearne uno senza conflitti dove, al massimo, il divertimento è rappresentato dal semplice contatto con la natura.

Walter Thirsk (Caleb Landry Jones di nuovo al Lido dopo Dogman) è il fattore di alcuni campi che sono proprietà dell’amico e ‘fratello di latte’ Maestro Kent (Harry Melling). Walter ha l’aspetto di uno uscito dal cast di Jesus Christ Superstar, vive in una simbiosi speciale con la natura, alimentandola e alimentandosene in una bellissima sequenza iniziale raccontata magistralmente dalla fotografia di Sean Price Williams e dalle musiche di Rodion G.A. (In Linistea Noptil). La vita tutto sommato serena e dignitosa del villaggio viene sconvolta, nel giro di una sola settimana, dall’arrivo di tre personaggi: il signor Quill (Arinzè Kene) che deve mappare i terreni per la prossima recinzione; Maestro Jordan (Frank Dillane) cugino di Maestro Kent che vuole portare con sé il progresso con tutta la violenza che ne comporta; e una donna misteriosa (Thalissa Texeira) che segue da esterna – ma non del tutto – le vicende della dissoluzione del villaggio, come se fosse un ‘memento mori’ in carne e ossa. Harvest è, fondamentalmente, la fine dei grandi racconti, il disincanto dopo l’illusione di un mondo migliore, dai campi in comune e senza recinzioni, dall’agricoltura di sussistenza alla produzione di lana: nessuno si aspettava l’Inquisizione spagnola e il capitalismo. Ma è anche un’opera a tratti claustrofobica nella sua ricerca di una innocenza pastorale e di strani riti (come sbattere la testa sul sasso per capire a dove si appartiene).

Potere, proprietà e appartenenza, erano i temi su cui si fondava il lavoro di Crace e qui parte di quei temi si perdono in termini di caratterizzazione quasi macchiettistica (uno su tutti il Maestro Jordan) di personaggi fondamentali. Addirittura, in alcuni momenti, la regia di Tsangari assume nell’accezione migliori i toni documentaristici per rischiare, la scena dopo, di scivolare nel mockumentary involontario. Il potere non è nulla senza la proprietà, e l’appartenenza pure, così Walter impara che quel suo sogno è ormai fuori tempo massimo, che non si può voltare la faccia al futuro per quanto sia doloroso e stupido; perché Walter scappa dalla città per costruire non proprio una falange ottocentesca, ma qualcosa di molto più arcaico o per dirla con Deleuze ‘un work in regress’, un Angelus Novus di Klee. Walter e Kent sono due antieroi (se vogliamo proprio infilarci il western somigliano più a dei personaggi neutrali di Sam Peckinpah) che pagano, Walter in maggiore misura, l’ignoranza e l’arroganza di volere riportare indietro le lancette dell’orologio. Come cantava qualcuno ‘You just can’t win’, almeno non col capitalismo.