Horror
1963
Horror è un film del 1963, diretto da Alberto De Martino.
Horror è la quarta regia di , dopo due peplum e un western, e ne conferma lo sguardo maturo e radicalmente rivolto nella direzione dell’incubo e dell’allucinazione. Come succederà in L’Anticristo, in cui un’incontenibile Carla Gravina è ossessionata da visioni psichedeliche, in Horror è una giovanissima Ombretta Colli, nei panni della nobile ereditiera Emily a essere tormentata dai fantasmi della propria mente. La storia ruota attorno al suo arrivo al castello avito insieme a un’amica, dove l’attendono il fratello Roderick e il medico di famiglia. Dai due uomini Emily viene a sapere dell’incidente che ha coinvolto suo padre, che ora si aggira, pazzo e sfigurato, per le foreste che circondano il maniero. Non solo: il vecchio vorrebbe uccidere Emily per evitare l’abbattersi di una profezia nefasta sulla sua famiglia. La messa in scena architettata da De Martino è gotica sino alla totale ortodossia. Il castello dei De Blancheville è situato tra le nebbie di una Scozia tutta di fantasia, in un Ottocento altrettanto fittizio, mentre i personaggi si esprimono con termini desueti e perifrasi falsamente letterarie. Quasi alla ricerca del distillato ultimo della sensibilità gotica.
De Martino, però, è più bravo di molti colleghi e, pur confezionando un’opera di maniera, sceglie bene i propri riferimenti, rifacendosi più al gotico sottilmente sperimentale di Bava che ai polpettoni tutti dialoghi e fantasmi in voga al tempo. La regia è colta e ricercata, con un utilizzo decisamente baviano delle profondità di campo e un lavoro rispetto alla messa in scena dell’ambiente piuttosto complesso. Le scenografie sono riprese da angolazioni inusuali, che ne magnificano le asimmetrie, alla ricerca di effetti stranianti e trucchi prospettici. Le cappelle, le cripte, le volte sono decadenti, prossime alla rovina, riprese spesso dal basso, a suggerire l’immanenza inarrestabile del finire delle cose. E, in effetti, diversamente da altri prodotti marginali dell’epoca, che spesso ricorrevano all’auto-parodia nel tentativo di mascherare l’idiozia della trama, Horror è un film compito e rigoroso, si direbbe addirittura serioso.
C’è, come in certo Bava, una ricerca tanatologica esibita, una curiosità per le cose della morte (cripte, bare, ornamenti sacri) che sembra meno pretestuosa che in altri esempi di gotico italiano. La sequenza in cui Emily, creduta morta, viene posta in una bara di cristallo è sorprendente. La ragazza – anticipando di oltre un lustro Jean Sorel in La corta notte delle bambole di vetro – tenta di comunicare la sua condizione di sepolta viva agli astanti, mentre con una complessa soggettiva vediamo i convenuti al funerale chinarsi a baciare il coperchio di vetro del sacello. Notevole intuizione registica e di messa in scena che eleva Horror al di sopra di molti epigoni baviani dell’epoca. Poi, è evidente, le grossolanità ci sono anche qui e i dialoghi sono sempre piuttosto ampollosi, ma visivamente, anche grazie a un bel bianco e nero, il film funziona. Efficaci le musiche di Giuseppe Franci (alias Francis Clark), tutte fughe di clavicembalo e pianoforte. Da riscoprire.