Hostile
2017
Hostile è un film del 2017, diretto da Mathieu Turi
Hostis, hostis, della terza. Nemico. Anche straniero. Ma sostanzialmente, essenzialmente, nemico. Nel film di Mathieu Turi, l’ipostasi del nemico è un mostro, un essere che cammina nei silenziosi deserti che sono rimasti in eredità a coloro che calcano la superficie terrestre. Il film fa subito capire che qualcosa “è stata”. Siamo in un futuro che sarebbe meglio non vedere mai. Siamo nel dopo. Una donna, Brittany Ashworth, anni 29, classe 1989, bellina anzi bella, ingualdrappata come immaginiamo siano i sopravvissuti a un olocausto, guida in un deserto, diurno. Il contatto radio ci dice che c’è altra gente, con la quale costei è in contatto e verso la quale è diretta: esploratrice, vedetta, staffetta, avanguardista: non si sa con chiarezza ma si capisce. Basta un niente, tuttavia, perché le cose prendano una piega sbagliata. Perché il macchinone blindato esca di strada, capotti, si ribalti e lasci la donna, sottosopra, in balia delle tenebre: una gamba con un osso schizzato fuori per metà. In balia delle tenebre che arrivano presto e di quello che, nel mondo in questione, dentro codeste tenebre si muove.
La macrocategoria cos’è, qual è? Il postatomico, l’horror, il film trappola che se esiste esiste perché noi, cioè Nocturno, cioè chi scrive, l’abbiamo categorizzato così. Brittany che nel film si chiama Juliette, è rovesciata nel buio freddo del Nulla. Ma lei è una dura, si riprende, si libera, steccandosi l’osso fluttuante dal polpaccio. Ed è subito ready to kill, arma in pugno, nervi tesi, sensi all’erta, contro l’Essere che le gira attorno, come faceva il Demonio nel deserto, quando Cristo si esiliò nelle solitudini sabbiose per quaranta giorni e notti. Ma la sorpresa non è il Perverso Polimorfo la fuori, non è il Diavolo, non sono le ombre che strisciano nell’ombra. La sorpresa è il passato, sono i ricordi, sono i frammenti di vita che fanno visita a Juliette nella lunga nottata. E che ci svelano ciò che era stato prima. Prima che il mondo diventasse quel deserto… Ha da passà la nuttata, la povera Jennifer. Dietro l’architettura compositiva e produttiva di Hostile c’è Xavier Gens: l’inciso lo mettiamo a questo punto , con l’intenzione e la speranza che questo possa far capire che il tocco di un autore affatto prevedibile è costitutivo delle dotazioni del film del giovane Turi. Che è un film, prima che sull’Orrore, sull’Amore e sulla Solitudine .
Sono due storie che si intrecciano come le serpi sul caduceo di Mercurio. Sono, anzi sembrano, intersezioni necessarie, la storia di Jennifer che combatte i notturni tremori per sopravvivere e la storia di Jennifer redenta dall’amore di Jack (Grégory Fitoussi), prima di tutto, prima che la fine avesse inizio. Il romance è tutto fuorché prevedibile. Sembrerebbe intrusivo, incomprensibile il salto da quel contesto apocalittico a questo dell’oggi, dove una ragazza drogata e sbandata trova in un gallerista bello e manierato il suo salvatore, mercé l’amore. Ma quel salto, aprosdoketon, è la forza del film, il contropiede, la tenerezza che fa contrasto e si lega in forza di pathos con la nigredo del presente, con i mostri che sono usciti dalle tane. Più si cerca di cesellare intorno a Hostile, più ci si rende conto che la sua essenza ha la potenza delle cose semplici, degli enti che non è necessario moltiplicare e complicare inutilmente. Lei e Lui, prima. Lei e il mostro, adesso. E la legge dell’Amore che governa e sovverte gli istinti e doma le fauci più fameliche. Nessuno è talmente folle da poter pensare di rivelare che cosa succeda alla fine di Hostile. Ma quel che è certo è che quell’ultima immagine, baciata dalla luce dell’alba, e il senso che essa racchiude, non lo possiamo più dimenticare. Orrore, amore, poesia, come Padre, figlio e spirito santo.