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I delinquenti

2023
Titolo Originale:
Los delincuentes
REGIA:
Rodrigo Moreno
CAST:
Daniel Elías (Morán)
Esteban Bigliardi (Román)
Margarita Molfino (Norma)

Il nostro giudizio

Il cinema argentino è una delle realtà nazionali più vivaci nel panorama mondiale e lo continua a dimostrare riempiendo i più grandi festival internazionali di film come lo scorso festival di Cannes, dove sono stati presentati nella rassegna Un Certain Regard due dei titoli più interessanti dell’ultima stagione cinematografica, ovvero I delinquenti di Rodrigo Moreno e Trenque Lauquen di Laura Citarella. Oltre a essere uniti dalla medesima realtà nazionale a livello produttivo, hanno in comune una lunghezza quasi prolissa (260 minuti per Trenque Lauqen e 180 minuti per I delinquenti con simili excursus narrativi poco utili all’avanzamento della trama), la presenza dell’attrice Laura Paredes e altri elementi, soprattutto contenutistici. I due film sono stati prodotti in contesti molto simili e con esiti  affini; tuttavia, la loro ideazione è stata parallela e non si sono contaminati a vicenda, come afferma Rodrigo Moreno, in una recente intervista rilasciata ai Cahiers du Cinema. Questa strana coincidenza rappresenta, dunque, una simile esigenza di riflettere su determinati bisogni e su determinate modalità rappresentative della contemporaneità.

I delinquenti prende spunto da un vecchio film poliziesco di Hugo Fregonese, Apenas Delincuentes del 1949 e da un reale caso di cronaca. Un impiegato di una banca, Morán (interpretato da Daniel Elìas) con la prospettiva di dover passare la sua intera vita a lavorare in un ufficio, decide di rubare, senza avarizia, il doppio della quantità di soldi che guadagnerebbe lavorando fino alla pensione: una metà per sé, che si costituirà e sconterà una pena di 3 anni e mezzo in carcere, una metà per un collega, Román (interpretato da Esteban Bigliardi) che coinvolge e convincerà a tenere nascosti in casa, fino alla sua uscita dal carcere. Le premesse sono dunque quelle dell’heist movie, tuttavia i connotati di questo genere (come quelli del film di mistero/poliziesco di Trenque Lauqen) si perdono e la narrazione esplode completamente. Il colpo va fin da subito a buon fine e sebbene rimanga la suspense sull’esito, sappiamo che il piano funziona alla perfezione e i dubbi non attecchiscono. Allo stesso modo, le indagini sulla sparizione di Laura in Trenque Lauqen, vengono dimenticate quasi a inizio film e nuovi intrecci sono aggiunti alla trama. Anche l’andamento successivo non è dissimile. Abbandonare una precisa normalità sociale, fatta di lavoro, famiglia (non ci sono figli, però, in nessuno dei due film) e urbanità, è l’unica soluzione possibile e avviene con un ritorno ai ritmi della natura. È dunque il topos della contrapposizione tra natura e città uno dei temi centrali affrontati. Non si tratta prettamente di una questione morale (come magari, andando a pescare nella letteratura classica, negli Adelphoe di Terenzio), ma di un’ancora di salvezza per ritrovare la libertà persa nei ritmi frenetici della contemporaneità.

La stessa libertà è chiave di volta per interpretare anche un meta-discorso sul cinema che ricorre in due momenti: nelle sequenze cittadine della visita di Norma a Ramòn e nella figura del videomaker Romàn, che assume sempre più importanza nei momenti finali del film. Per quanto riguarda il primo, siamo sempre nell’ottica del conflitto tra urbano e naturale. Il cinema (come luogo fisico, e necessariamente presente in un contesto cittadino) è qui rappresentato come uno dei luoghi dell’innamoramento tra i due e quasi un momento di interruzione della noia che porterà Norma a tornare nei pascoli della regione di Cordoba. La seconda figura, invece, relegata a quest’ultimo ambiente, rappresenta una modalità di fare cinema secondo i propri ritmi. Il suo personaggio è paradossale e contradditorio: da una parte lamenta una morte del cinema come mezzo artistico, dall’altra sente l’esigenza di ricercare e mettere per immagini l’essenza del suo territorio. Qui spicca una certa dose di vitalità (soprattutto nelle sequenze finali del film), una volontà di realizzare cinema in modo libero senza pressioni economiche. Questo, allo stesso modo, è lo spirito che vediamo riflesso anche nel film di Rodrigo Moreno. La libertà che si prende nella gestione del tempo è totale: se a inizio film, nelle sequenze dell’ufficio è annacquato da elementi narrativi con una spinta centrifuga rispetto al fulcro della narrazione (per esempio, proprio nelle prime scene, la questione della firma), proseguendo il regista si prende il diritto di sovvertire completamente lo stesso tempo. Veniamo messi davanti a flashback, anacronismi (questione dei telefoni cellulari o delle divise dei carcerati) ellissi e uno stop totale nel finale del film, in un momento eterno di contemplazione atemporale (si torna al discorso della natura), con un appello moraleggiante a un tempus non fugit di senecana memoria.

Gli anacronismi ricorrenti sono anche segno di manifesta finzionalità, altra presa di posizione cruciale sul cinema di Moreno (ma in realtà anche di tutto il movimento del cinema argentino). Il cinema documentario è tutto ciò che si trova più lontano. Siamo di fronte a una storia inventata ed esattamente come nella letteratura di Borges, le coincidenze e i momenti di incredula sospensione del giudizio ne sono il centro focale. Il fatto che i 5 protagonisti principali hanno nomi che sono tutti anagramma l’uno dell’altro (Román, Morán, Ramón, Morna e Norma) o che l’esperto attore German de Silva, interpreti due differenti personaggi (il direttore della banca e il capo dei galeotti) non sono che due esempi. Allo stesso modo agiscono a livello narratologico l’intreccio delle storie e il continuo cambio di punti di vista e narratori, nella direzione di una resa complessa e avviluppata di una realtà postmoderna con continui legami tra la narrazione fittizia e la dimensione dietro lo schermo.