Il collezionista di carte
2021
Il collezionista di carte è un film del 2021, diretto da Paul Schrader.
Presentato in concorso alla 78a Mostra del Cinema di Venezia sotto l’egida produttiva di Martin Scorsese, Il collezionista di carte (titolo che travisa l’originale The Card Counter) segna il ritorno alla regia e alla sceneggiatura di Paul Schrader a quattro anni dal capodopera teorico First Reformed. Un ritorno che è giocoforza anche ai temi e alle ossessioni che da sempre animano il suo cinema, a partire da una trama imperniata sull’ennesima figura solitaria alle prese con il peso di azioni passate che sembrano impossibili da redimere. William “Tell” Tillich (Oscar Isaac) è un ex militare americano che ha scontato otto anni e mezzo di carcere per le violenze commesse sui detenuti di Abu Ghraib durante la guerra in Iraq. Divenuto un abile contatore di carte nel periodo di reclusione, egli trascorre le giornate passando da un casinò all’altro, dove si guadagna da vivere come giocatore d’azzardo professionista, limitandosi tuttavia a basse puntate per non attirare troppa attenzione. Una vita anonima e routinaria che viene scossa dall’incontro con Cirk (Tye Sheridan), figlio di un altro ex carceriere suicidatosi dopo essere stato congedato con disonore dall’esercito, il quale medita vendetta nei confronti del maggiore Gordo (Willem Dafoe), addestratore del padre e dello stesso Tell rimasto però impunito.
Intenzionato a distogliere il giovane dai suoi propositi e ad aiutarlo a saldare i debiti accumulati dopo la caduta in disgrazia della famiglia, William accetta di entrare nella scuderia di La Linda (Tiffany Haddish), un’agente di star del poker con alle spalle ricchi finanziatori. Un’occasione di riscatto destinata a condurlo a una drammatica resa dei conti con il proprio passato. «L’attesa è tutto nel poker», confessa William, e lo stesso potrebbe dirsi della sua vita, come sospesa in un austero regime di azioni ripetute e solitudine coatta che sa di punizione autoinflitta, e che ben si riflette nel rigore della messa in scena e nell’asciuttezza della recitazione e dei dialoghi, secondo i dettami di quello stile trascendentale che Schrader stesso ha inquadrato nella sua tesi di dottorato poi rielaborata nel fondamentale saggio del ’72 sul trascendente nel cinema. Un ascetismo formale a cui fa da contraltare l’estetica neo(n)-noir degli esterni metropolitani e delle sale da gioco (sature di luci e colori in aperto contrasto col grigiore delle stanze di motel abitate da Tell), così come il ricorso a distorcenti riprese in fish-eye e a martellanti accelerazioni sonore nei flashback che riportano agli orrori di Abu Ghraib.
Il gioco d’azzardo come metafora di vita, dunque. Ma anche un esplicito atto di accusa contro le aberrazioni belliche statunitensi, quindi la denuncia di un Paese incapace di assumersi le proprie responsabilità se non addossandole a poche mele marce laddove «la cesta è il vero problema». Sono ancora le istanze di critica sociale e politica della New Hollywood, di cui Schrader continua a farsi portatore pur senza rinunciare all’afflato religioso d’ispirazione calvinista tipico del suo cinema. Centrale rimane infatti il dramma della coscienza, dell’individuo con i suoi tormenti interiori, che sullo schermo Tell consegna significativamente all’intimità di un diario scritto, come già prima di lui il John LeTour dello Spacciatore e l’Ernst Toller di First Reformed. In una nuova parabola sulla colpa e sul perdono, dove la redenzione si consuma nel sangue e la sola salvezza risiede nella grazia. Una grazia immanente, che balugina nei rapporti umani, nell’apertura all’altro e nel risveglio dei sentimenti, come sotteso nel toccante finale del film. Il collezionista di carte si conferma dunque opera profondamente umanista, che se da un lato guarda ai maestri di sempre Ozu e Bresson, dall’altro lato è parente stretta del cinema ad alta tensione morale del miglior Eastwood.