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Il grande racket

1976
Titolo Originale:
Il grande racket
REGIA:
Enzo G. Castellari
CAST:
Fabio Testi
Vincent Gardenia
Renzo Palmer

Il nostro giudizio

Il grande racket è un film del 1975, diretto da Enzo G. Castellari.

Roma è nella morsa di un grande racket che ormai ha messo sotto tutti i negozianti. Il commissario Nicola Palmieri cerca di contrastare in ogni modo i taglieggiatori ma i suoi superiori gli mettono i bastoni tra le ruote. Disilluso e disperato, raccoglierà una squadra di vittime degli estorsori per chiudere una volta per tutte i conti con la gang. Un’immagine: Fabio Testi, vestito in completo jeans, la cartuccera a tracolla e un calibro 12 tra le mani, che torreggiando su Antonio Marsina, gli spara dentro un cesso, senza battere ciglio, ignorando mugolii e minacce della vittima. Una battuta, anzi due: quella di Glauco Onorato – buonanima -, che con la schiena spezzata mormora a Testi: «Marescia’, io nun so’ ‘n boia e se moro, moro. Ma si nun moro, me devi promette che c’annamo insieme a sventrarli, quelli…». E quel che dice, ancora Fabio Testi a Orso Maria Guerrini, quando il primo, appeso il distintivo di poliziotto al chiodo e indossato l’abito del giustiziere, va a trovare il secondo, un campione olimpionico di tiro al quale i delinquenti hanno stuprato e ammazzato la moglie: «Duecento piattelli al giorno, per due mesi… Ingegnere, cosa ne direbbe di cambiare bersaglio?».

Sono le battute ad avere fatto grande il cinema di genere italiano, quel fraseggio sempre secco, lapidario, definitivo: ogni locuzione una gnome, una sentenza. Soprattutto il poliziesco, dove certi attori non sarebbero stato niente senza battute e dialoghi corruschi, recitati da voci prestate. Il grande racket ha anche questo ma ha ben più di questo: Fabio Testi – il quale oggi rimpiange di non avere dato al personaggio di Nicola Palmieri un maggiore spessore ironico: che è affermazione incomprensibile – esce dal solito raggio dei soliti attori del genere. Interpreta un carattere che può essere pensabile ed è giusto solo per quel film: è congruo, parla e agisce dentro quella situazione con un’esattezza impressionante. Persino i dettagli che circonfondono la sua figura, il braccio ingessato che Castellari si immaginò per richiamare New York ore tre: l’ora dei vigliacchi, persino gli abiti sono quintessenziali a Nicola Palmieri, un commissario ombroso, tra i più ombrosi che si ricordino, senza nessuna storia, senza nessun legame, uno che non ha niente e perciò non ha assolutamente niente da perdere. Il capo perfetto di un perfetto manipolo di disperati. Un altro interprete non avrebbe reso Il grande racket ciò che è. E che cos’è? E’ la faccia in ombra del poliziottesco, è una seconda via, un tramite diverso, all’obiettivo che tutti avevano in testa allora, che era quello di raccontare storie di violenza in contesti urbani.

Il Racket non è Roma violenta, non è nemmeno Milano odia, non ha niente a che vedere con nessun Merli né con nient’altro citabile di quel momento. E’ una pura forma, svuotata di ogni ideologia, di ogni discorso. E’ il selvaggio del genere, ma non un selvaggio scomposto, casuale, arruffato, dionisiaco. E’ un selvaggio apollineo, governato da briglie registiche che non lo lasciano correre a casaccio nella direzione del realismo. Come tutto Castellari, è realismo esacerbato dall’irrealismo, vero che si sublima nel fantastico (la sparatoria al deposito dei treni, quella finale). Per questo, Il grande racket sembra (ed è) molto più feroce nella sua fenomenologia delle più feroci sevizie compiute da un Giulio Sacchi. Per trovare qualcosa di simile tocca citare il Fulci poliziesco, Luca il contrabbandiere (con Testi ancora, guarda caso): là c’è un’energia selvaggia incanalata, governata in maniera analoga. Castellari come poi Fulci fanno due film anarchici, realmente, genuinamente anarchici, che non tengono in minimo contro la tradizione e i discorsi che gli altri creavano stando nella comodità del solco. Loro invece tralignavano. Una volta facevamo richiami a Killer Elite e a The Killer di John Woo per definire comparativisticamente Il grande racket. Oggi è chiaro che il film di Castellari può fare rima solo con se stesso.