Il tempo è ancora nostro
2024
Maurizio Matteo Merli è il figlio di Maurizio Merli. Il che non dovrebbe c’entrare in una recensione del suo primo lungometraggio presentato in anteprima al Festival di Venezia, nella Sezione Confronti delle Giornate degli autori: questo Il tempo è ancora nostro. E il film non c’entra, infatti, perlomeno nella “lettera”: non si tratta di un poliziesco, né di genere in qualche modo correlato. Quanto a “spirito”, invece, il discorso potrebbe cambiare. La sceneggiatura, dello stesso regista, verte sui temi dell’amicizia e del riscatto, sul filo tra presente e passato e tramite la cementazione dello sport, che nel caso di specie è il gioco del golf. Dove, a presentare la cosa anche così, sulle generiche, subito balza all’occhio la singolarità di quest’ultimo elemento, il golf, che non è illustre sconosciuto nella storia del cinema ma ci va abbastanza vicino – quattro, cinque titoli al massimo si riescono ad antologizzare. Sport che nell’immaginario collettivo ha sempre fatto rima con pratica d’élite, roba da ricchi, quindi di qui anche l’idea che costruirci attorno un film non facesse chiamata per il pubblico. Il tempo è ancora nostro va in controtendenza, perché stavolta il golf è svuotato di ogni aura sacrale: non è solo roba per ricchi, ma roba per tutti.
I due protagonisti sono di differente strato sociale e hanno avuto differenti destini. L’uno, Tancredi (Ascanio Pacelli) è un finanziere di successo, viaggia con autista (Simone Sabani, che funge un po’ da genio della lampada) ma in compenso ha una situazione familiare disastrosa: una figlia piccola e una moglie che è sul punto di mollarlo. L’altro, Stefano (Mirko Frezza), ha fatto naufragio nella vita, con problemi di dipendenza dalla droga e ora campa al riparo di una comune. Quindi, l’idea è di tornare a fare incrociare le strade, adesso, di due uomini che da bambini furono uniti dall’amicizia profonda e dall’amore per il golf. E questo lo vediamo subito, in retrospezione, all’inizio della storia, quando siamo introdotti al personaggio di Costantino (Andrea Roncato), papà di Stefano ma figura di riferimento anche per Tancredi. Merli muove il passato verso il presente e viceversa, trovando il modo di rinsaldare due storie opposte ma gemelle, quando Tancredi decide di tornare a impugnare la mazza da golf, di cui era stato un campione prima che gli affari lo strappassero al green. Molla il certo non per l’incerto ma perché questo significa un recupero in senso lato della propria vita, affetti compresi. Ritrovare il vecchio Costantino affinché gli faccia da trainer e da lui risalire fino a Stefano è un tutt’uno. Ma lì c’è la situazione dell’amico, ormai fuori dalle cose, a creare l’inghippo. Che sarà (senza fare spoiler) la vita stessa a risolvere, rimettendo Tancredi e Stefano, l’uno accanto all’altro armati (di mazza e palline) ad affrontare una gara determinante, dove la posta in palio va al di là della vittoria sul campo verde e sul giovane avversario Miguel Gobbo Diaz
Chiaro che una storia del genere dovesse essere retta da interpreti funzionanti nei ruoli. E sia Frezza sia Pacelli i rispettivi personaggi li indossano bene. Tancredi viaggia centralmente fino a metà film e ha molte interazioni, con il saggio autista, con la moglie e la figlia, con i colleghi allorché decide di cambiare strada, e infine con Costantino: Pacelli tratteggia un dipendente dal successo, senza mai calcare o strafare, e ha la giusta fisicità per occupare gli spazi agonistici della seconda parte. A merito di Merli va detto che la regia riesce, proprio giostrando sugli spazi, a imprimere dinamismo a uno sport in qualche modo “anti-spettacolare” come il golf, tendente al meditativo, fatto di pause, di attese, più che di “fatti”. Vero è anche che proprio questi “vuoti” facevano gioco per essere riempiti con l’azione, interiore prima che esterna, di Tancredi e di Stefano, il quale entra in scena come il matto, il bagatto, le bateleur dei Tarocchi, il “giocoliere”, quale parte dionisiaca della coppia in cui Tancredi è invece quella apollinea. Frezza è certamente la figura che più dà nell’occhio tra tutte, non solo perché cammina scalzo sul green, per il suo aspetto da “trucido”, perché si porta nei cimiteri a dormire (c’è una ragione, che non sveliamo), ma anche e soprattutto in quanto forza naturale, in quanto energia e istinto che i duri casi della vita non hanno potuto annientare. Ed è proprio partendo da questo che leggere Il tempo è ancora nostro come il tentativo di recuperare uno “spirito” merliano paterno mi pare suggestivo. Perché siamo di fronte a parabole discendenti che sono alla ricerca di un ritorno, di un riscatto, della pienezza di sé. I protagonisti del film ci riescono. Il tempo è ancora loro. A Merli il tempo terreno non bastò, ma la sua partita già l’aveva giocata e vinta nel mito.