Il vangelo secondo Taddeo
2006
Il vangelo secondo Taddeo è un film del 2006, diretto da Lorenzo Lepori.
Il regista toscano Lorenzo Lepori è una delle figure più bizzarre e underground del cinema indi italiano, e proprio per questo interessante: se vogliamo, è un po’ la versione nostrana dei vari Schnaas, Ittenbach e Rose tedeschi. Di una cosa siamo certi: se fosse nato in Germania, Lepori sarebbe già un regista cult come i summenzionati, mentre si sa che in Italia questo tipo di cinema fatica ad attecchire. Eppure, grazie alla critica specializzata, ai festival di genere e ad alcune distribuzioni in DVD, nel corso degli anni anche il nostro ha acquisito una certa fama. L’esordio di Lepori alla regia risale al 2006 con il folle Il vangelo secondo Taddeo, momentaneamente in streaming free e legale sul canale YouTube del regista. Trattasi di un lavoro grezzo, semi-amatoriale, ma che ha il grande merito di divertire e di non prendersi sul serio: lo capiamo fin dall’inizio, quando sui titoli di testa la produzione presenta il film “con orgoglio” e la parola “sceneggiatura” è messa tra virgolette. Sarebbe troppo semplice liquidare Lepori come un regista “trash”. Per comprendere cosa sta dietro al suo modo di fare cinema, bisogna infatti partire dalla fine di Taddeo, in cui Lepori ringrazia il defunto regista Andy Milligan per l’ispirazione: un underground americano – quasi un erede del più celebre Ed Wood – autore negli Settanta e Ottanta di numerosi film da drive-in, pura exploitation ricca di sesso e violenza, pellicole realizzate a bassissimo costo ma con tanta fantasia e voglia di divertirsi e divertire, girate senza molta attenzione alla tecnica e con un attori improvvisati presi fra amici e conoscenti. Questa è anche la filosofia di Lepori: prendere o lasciare. Inoltre, se vediamo tutta la sua filmografia, possiamo notare una progressiva evoluzione stilistica e narrativa, che si allontana dallo sperimentale Il vangelo secondo Taddeo per abbracciare un’estetica più professionale senza però abbandonare mai l’aspetto divertente e weird: da Resurrection in blood (finora il suo miglior lavoro), in cui dimostra un gusto particolare per l’immagine, al crudele Cinque cerchi roventi, dal pulp I love you like a twist (con Gianni Dei) al nuovo Oltretomba, ispirato ai fumetti horror/sexy italiani degli anni Settanta. Un’altra fonte di ispirazione per Lepori è dichiaratamente Renato Polselli, uno fra i registi più bizzarri del cinema italiano, e forse anche i registi splatter della nuova generazione come appunto Schnaas e soci, visto che in più di una scena gli squartamenti ricordano il loro stile.
Il vangelo secondo Taddeo non segue un preciso filo logico nella trama: ambientato in un mondo distopico (non si sa dove né quando), si snoda attraverso personaggi squallidi, folli e crudeli – stupratori, assassini, sodomiti, travestiti, drogati, gang di malavitosi, adoratori del demonio, in una spietata lotta che vede impegnati tutti contro tutti; a questa perversione si oppone padre Taddeo, un prete alquanto bizzarro – borchiato e nerovestito – che dopo aver ricevuto la visita di un misterioso messaggero inizia una personale crociata con una croce munita di lame. Il risultato è un macello in cui non sopravvive nessuno…o quasi. Impossibile descrivere oltre ciò che accade, perché tutto il film è un delirio assoluto che va visto più che raccontato: una sorta di Polselli e Pannacciò in versione casareccia, estremamente grottesco, sanguinario e scurrile, in cui non va cercato un senso ma che va goduto come prodotto di intrattenimento e omaggio a quel certo tipo di cinema. In Taddeo sono già evidenti alcuni marchi di fabbrica dei successivi film di Lepori: la rappresentazione di ogni perversione possibile e immaginabile, la commistione fra horror e gangster-movie in una nuova forma di pulp, l’ironia volontaria, l’estremizzazione dell’elemento gore e splatter, il sesso, la voluta blasfemia – ma attenzione, senza nessun messaggio di fondo o pseudo-moralismo. Siamo nel soft-core, ma decisamente spinto e deviato: particolarmente brutale il duplice stupro (etero e omosessuale) che avviene all’inizio, ma ricordiamo anche la sessione bondage/coprofaga e una doppia eiaculazione simulata – prima ad opera del messaggero che la fa bere al prete, poi dal pene (finto) di un personaggio evirato da Lepori.
Già, perché qui il regista veste anche i panni di attore in un duplice ruolo: il più consistente è quello di un barbone sgozzato con un coccio di bottiglia e poi riportato in vita sotto forma di zombi da Taddeo col suo sangue (come un Morpho di franchiana memoria). Gli effetti speciali sono rozzi e artigianali ma fatti con gusto, con il sangue rosso vivissimo in stile H.G. Lewis: Lepori si sbizzarrisce nel mettere in scena squartamenti, schizzi di sangue, budella estratte, teste spaccate, deorbitazioni, arti mozzati e altro ancora. Disgustose le scene di coprofagia (ovviamente simulate ma molto realistiche), con “Klaus il mangiamerda” che si gusta le feci in primo piano, mentre merita lo status di cult la sequenza in cui un ragazzo estrae il cervello dell’amico per sniffarvi la cocaina che ha appena assunto – momento esemplificativo del delirio a cui assistiamo lungo tutto il film, un weird grottesco che in certi momenti evoca persino i primi lavori di Ciprì e Maresco (il tossico che si fa in vena, il finale nella piscina vuota). Fra personaggi che appaiono e scompaiono senza un motivo logico, volgarità e dialoghi deliranti spesso in parlata toscana, sesso, violenza e scontri brutali, assistiamo a un’ora e dieci minuti di divertimento: certo, la fotografia è “al naturale”, le riprese traballanti, gli attori di fatto non recitano, ma Lepori dimostra già un senso del montaggio e un abbinamento fra immagini e musica (soprattutto metal) che gli consentiranno di dirigere film di maggior spessore e cura estetica. Nel finale, il regista realizza addirittura una parodia di Cannibal holocaust, con il boss Pollicino (!) che si filma mentre il rivale lo massacra col machete – per lo spettatore è divertente cogliere le varie citazioni e parodie che Lepori mette in scena: un lavoro “povero”, ma diretto senza pretese e con quell’umiltà che purtroppo manca a molti registi indipendenti italiani.