Killers of the Flower Moon
2023
Killers of the Flower Moon è un film del 2023, diretto da Martin Scorsese.
Nella medietà generalizzata del cinema ogni tanto succede qualcosa, arriva qualcuno che prova a dare una spallata, a spaccare il recinto in cui vogliono costringerlo. Stavolta è Martin Scorsese, 81 anni, uno che non le manda a dire, che in una famosa uscita ha già sbriciolato i film sui supereroi (“Sono un pericolo per la nostra cultura, perché un sacco di gente pensa che i film siano solo quelli”). Ha ragione? Chi se ne frega, e ovviamente continuano ad esistere titoli supereroistici notevoli, vedere Spider-Man 2 di Raimi, insieme a tanti altri orribili. In un passaggio meno noto invece, ma forse più essenziale, sullo streaming disse più o meno: un film non è una cosa che mangi e butti via. Intendeva dire che nella sua idea un film deve restare, non si può esaurire nella bulimia del momento. Il discorso, che sbagliando si potrebbe liquidare come le ciance di un vecchietto che non capisce i cambiamenti, in realtà mi pare imprescindibile per capire cos’è Killers of the Flower Moon, l’ultimo film di Scorsese tratto dal libro Gli assassini della terra rossa di David Grann, in sala dal 19 ottobre. Perché in primis è qualcosa che vuole restare, ma non per l’esito che può piacere o meno, bensì proprio per la realizzazione, per il concetto che c’è dietro e come viene condotto fino al termine. Anche la durata, 206 minuti, fa parte di ciò: “La gente dice che sono più di tre ore, ma si siedono davanti alla Tv e guardano una cosa anche per cinque ore. Molti guardano il teatro per tre ore e mezza: ci sono attori veri sul palco, non puoi alzarti e andare in giro. Date questo rispetto anche al cinema”. Era l’ultima citazione del regista.
Killers of the Flower Moon è una storia che rifiuta di bruciarsi, come una falena vicino alla luce, e questa volontà di permanenza si avverte sin dai primi fotogrammi. Anni Venti, Oklahoma. La nazione Osage è una popolazione nativa americana che vive in questi spazi, nella sua tradizione di concerto con la natura, e parla la lingua siouan, presa in giro dai bianchi perché al loro orecchio limitato suona simile al richiamo degli uccelli. La comunità ha già scoperto che la terra è ricca di petrolio, quindi le loro concessioni di terreno adesso valgono oro. La strategia degli uomini bianchi per ottenerle è graduale e sottile. Da una parte sfruttano alcune debolezze dei nativi, per esempio le malattie come il diabete o la depressione per cui non esiste medicina. Dall’altra uccidono a sangue freddo, in una spirale violenta senza pietà, con membri degli Osage che ricevono pallottole in testa senza che ne segua alcuna indagine. E c’è la strategia affettiva, per così dire, ovvero conquistare e sposare le ragazze indiane per poi lentamente farle fuori, eliminarle, impossessarsi delle loro concessioni. Il protagonista è Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), un giovane reduce che torna dalla prima guerra mondiale e si ricongiunge allo zio, William Hale (Robert De Niro), il signore e notabile di zona, un uomo apparentemente generoso che si limita a fare l’agricoltore in amicizia e rispetto coi nativi. Qui Ernest incontra Molly (Lily Gladstone), una bella Osage che ancora non è sposata, se ne innamora e prende a corteggiarla. La ragazza arriva a capitolare, naturalmente, e diventa presto un’altra pedina nello scacchiere bianco. Anche lei, come tutti, sarà destinata all’eliminazione per prendere il terreno che sprizza oro nero. Il grande burattinaio è proprio Hale, il quale preferisce farsi chiamare king, appunto, è quello che ordina le uccisioni ma sempre col volto gentile, accogliente, usando il pugno di ferro nel guanto di velluto. Interpellato sulla sorte della Nazione Osange, fuori dai denti commenta candidamente: “Sono destinati a scomparire comunque”. Che vengano trucidati dal bianco, a suo avviso, fa parte di una normale estinzione.
Se volessimo sondare la Storia del cinema, alla ricerca del grande film sugli indiani, quello che li risarcisce dalle nefandezze americane, forse si potrebbe evocare Il grande sentiero di John Ford. Ma il gesto di Scorsese è ancora diverso. Prima di tutto, seppure sia avvolto nell’ambientazione western, Killers of the Flower Moon è un noir. Tale il genere di elezione: dopo la prima parte propedeutica, infatti, il tentacolare racconto si concentra sul rapporto tra il bianco Ernest e la nativa Molly. Se Ernest decide di entrare nei traffici dello zio, partecipando alla trama per le terre, dall’altra parte ama teneramente la moglie, con cui fa figli, e la accudisce contro il nemico diabete. Anche a Molly piace il marito anche se, l’aveva anticipato, non è particolarmente intelligente. Il rapporto tra zio e nipote si propone ovviamente come una riscrittura di quello padre-figlio, e meno banalmente come una variante della dominazione tra master e slave. Con il comportamento mellifluo, con la sua spietata democristianità, De Niro convince DiCaprio a partecipare a un processo che tanto è inesorabile. Tra lui e la moglie inizia allora una dinamica nera degna de Il sospetto di Hitchcock, con la fiala di insulina al posto del bicchiere di latte, e l’uomo che forse comincia ad avvelenare la donna invece di curarla. Quanto ne è consapevole? Cosa sta facendo di proposito e quanto è vittima delle circostanze? Nell’Ernest di DiCaprio, insomma, Scorsese raffigura la trattativa americana con la propria coscienza. Se De Niro è il volto “buono” del Male, l’amico che uccide e preda, il genocidio dolce, DiCaprio è invece il punto di ebollizione delle spinte contrastanti che vivono rimosse nella Storia degli Stati Uniti. Il massacro fu consapevole e organizzato, i paladini della libertà compirono il genocidio? Su questa frattura sofferta si muove il personaggio di Ernest, un colpevole/innocente, una figura shakesperiana soprattutto quando dovrà scegliere se testimoniare o tacere. Il nascente Fbi arriva a indagare sulle brutalità contro gli Osage, ma forse aveva ragione Hall, non si può far altro che constatare l’orrore della Storia. Per poi iniziare a negarlo subito dopo: “Era solo insulina”…
Tutto questo prende corpo in un film solido, nitido, politico. Un noir che avanza lento e all’improvviso sguscia come un serpente. Scorsese sceglie questa forma di genere, eminentemente cinematografica, per portare alla luce il rimosso: lo fa letteralmente, posizionandolo davanti alla cinepresa, come accade per le luci poste dagli Osage davanti alle loro case per evitare altre morti, che però sembrano anche i lumi dei defunti. Un incubo splendente di cinema neoclassico, nel senso che mentre lo guardi è già classico, viene automaticamente storicizzato nello sguardo. Quanto alla durata, ha già risposto il regista. Non c’è nulla da aggiungere.