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Kristy

2014
Titolo Originale:
Kristy
REGIA:
Olly Blackburn
CAST:
Haley Bennett (Justine)
Ashley Greene (Violet)
Lucas Till (Aaron)

Il nostro giudizio

Kristy è un film del 2014, diretto da Olly Blackburn.

Donkey Punch non era male, se qualcuno se lo ricorda. Era la storia di alcuni tipi che si portano su uno yacht delle ragazze e poi mettono in pratica l’affare del titolo, che consiste nel tirare un cazzotto sul collo della partner nel momento dell’orgasmo, e vedere – come cantava Jannacci – l’effetto che fa. A suo tempo, ricordo che lo tirai in ballo, questo film di Olly Blackburn, in un qualche discorso che prendeva le mosse da Top sensation di Ottavio Alessi. Comunque, non era male, ribadisco. Ora Blackburn torna dopo sei/sette anni in cui apparentemente è stato a fissare il muro di casa, con questo Kristy, che nella concezione tradisce una certa bizzarria di pensiero, anche se non al livello del cazzotto mentre si scopa. Esiste una specie di setta, americana, che catture delle ragazze e fa fare loro la fine del topo, incidendogli nelle carni la lettere K. Perché gli assassini sono satanisti e la loro crociata è sterminare i cristiani (che loro chiamano Kristi o qualcosa del genere, non è chiarissimo), riprendendone l’agonia e mettendo lo spettacolo in rete. Questa spiega viene liquidata in una sporade di scene sui titoli di testa. Poi parte la storia, le cui premesse sono che Haley Bennet che nel film si chiama Justine, rimane sola nel college dove studia perché fidanzato, amiche e compagni tornano a casa per il Giorno del Ringraziamento. Rimangono lei e un paio di sorveglianti, nel posto che è, ovviamente, enorme e dedalico. Sono giorni di pioggia e di nebbia, va detto perché Blackburn enfatizza la cosa. Justine, nella desolazione, canta, balla, corre, va in piscina, in skateboard. Passa il tempo. Poi una sera esce in macchina per andare a prendere in uno store nei paraggi qualche schifezza da mangiare. E lì, incrocia la strada della setta di cui sopra: una tipa che sembra figa anche se il cappuccio le nasconde il viso (Ashley Greene), con tre piercing nel labbro inferiore, la guata e la alloquisce come “Kristy”. Quel che accade di poi, è facile pronosticarlo.

Kristy non ha coni d’ombra o possibilità di strani deversori. Va dritto, alla luce del sole, dove deve andare, cioè allo scontro tra la sciroccata con i piercing che si chiama Violet, i tre ammazzasette mascherati di stagnola e armati fino ai denti di armi bianche, che si porta appresso come esecutori, e la povera Justine/Kristy che dovrà usare il campus deserto – le guardie le fanno fuori subito – come un’arena in cui combattere per la propria pelle. Certo che, dopo avere visto e apprezzato Final Girl, di fronte a film di impostazione tradizionale come questo c’è il forte rischio di restare freddini. Jessica prima piange, trema, si dispera e poi, dopo il turning point del fidanzato ammazzato – era tornato indietro per aiutarla a seguito di una telefonata disperata di lei – passa al contrattacco facendo sfracelli. Blackburn qualcosa ce l’ha nella sua regia che differenzia Kristy dai servivor di questo tipo, ma lavora con una retorica che è quella che è o che deve essere e non riesce a variare più di tanto sulla sostanza, anche se – è da ripeterlo – la forma risulta accattivante . C’è una bella sequenza in una piscina olimpionica ma anche lì, più per come è fatta che per quello che racconta, che non può essere che quello che racconta.
Nei revenge-movie, anche se Kristy è un esempio un po’ al limite, che sembra voler riutilizzare gli stilemi dello slasher e delle macellerie ambulanti degli anni Ottanta – e qualche effetto in questo senso è molto buono, tipo la mazza chiodata –, la vittima deve essere sufficientemente vittimizzata affinché poi scatti la lex talionis che fa dire “Alé!” quando l’agnello si fa improvvisamente lupo e addenta alla iugulare i carnefici. Qui, invece, la struttura è un po’ disequilibrata tra tutto ciò che minacciano di fare alla Bennet, quello che effettivamente riescono a farle e quello che lei, dopo, fa a loro. Ma forse è un’idiosincrasia soggettiva, questa, figlia della visione – lo ripeto – di un film concettualmente nuovo come il citato Final Girl che non può, se lo si è visto, non diventare un metro di confronto nella dilalettica offesa-reazione.. C’è da dire, però, che quando la protagonista “salta giù” – e non si aggiunge altro – beh, l’idea non è niente male e viene tradotta in immagini in maniera altrettanto efficace. La protagonista fa il suo lavoro, la Bennet, ma con la solita faccetta che si dimentica prima della fine dei titoli di coda.