La banda del trucido
1977
La banda del trucido è un film del 1976, diretto da Stelvio Massi.
La banda del trucido vive di un singolare contrasto: è un film nel quale il personaggio di Monnezza entra, per così dire, tirato per i capelli, come recupero in extremis; ma è anche il film in cui Tomas Milian sventaglia il massimo della propria arte nell’affinare il carattere del personaggio creato l’anno precedente in Il trucido e lo sbirro. Le due pellicole sono prodotte dalla Variety e sono scritte da Dardano Sacchetti, con una tessitura piuttosto simile: da un lato Monnezza, dall’altro un poliziotto e come terzo un cattivo da fermare a qualunque costo. Ed è ugualmente sovrapponibile una certa metodologia erratica del racconto, che frantuma il plot principale in una serie di episodi, spesso auto-conclusi. Ma se nel film di Lenzi questo appariva come una precisa scelta (al pari dei suoi altri maggiori polizieschi del periodo, da Roma a mano armata a Il cinico, l’infame, il violento), nella Banda del trucido si trattò del classico caso in cui di una necessità si dovette fare virtù. Milian accettò di entrare nel progetto solo a condizione che gli si lasciasse mano libera per ciò che riguardava la parte di Monnezza; e andò lontano, molto lontano – pur trattandosi di gestire uno spazio relativamente limitato nell’ora e mezza – realizzando quello che si può senza esagerazioni definire un film nel film. La produzione e il regista, non più il temperamentoso Lenzi ma il mite e amabile Stelvio Massi, obbedirono e anziché tentare di ridurre la cesura mutarono la struttura globale disseminandola in sub-plot, tagliando orizzontalmente ciascuna delle due sezioni della pellicola.
Una mossa tattica e tutt’altro che stupida, perché la parte dei “casi mirabili” dell’ispettore Luc Merenda e quella dei “casi mirabili” del Monnezza, pur nel paradosso che i due personaggi finiscono per incontrarsi in una sola sequenza, danno meno l’impressione della scollatura totale che esiste alla loro base. Il film di Merenda è il classico poliziottesco alla Massi, asciutto, lucido, veloce e ben fotografato, con tutti i vezzi che il regista aveva in quel periodo (la scena in cui Merenda travestito da autista spara a freddo addosso al rapinatore quando questi apre la porta del veicolo, ritornava pari pari nel terzo Mark, o la sequenza “firma” dell’arma da fuoco in soggettiva, un effetto da videogame ante-litteram). Due o tre di pezzi di bravura vanno segnalati: il sequestro sventato dell’inizio (memorabile Sandra Cardini, che mangia la marmellata, strafatta, mentre intorno fischiano le pallottole), l’inseguimento nel deposito di autobus e l’agguato che Franco Citti tende a Merenda nella casa della fidanzata Katia Christine, che, chissà perché, fa venire in mente Fernando di Leo – sequenza nella quale l’attore francese, costretto a recitare con un paio di manette vere, rovinò su una spalla e soffrì di risentimenti dolorosissimi, che lo portarono nei mesi successivi a fare causa alla produzione. In una battuta, Sacchetti si prende anche la libertà di sfottere il genere (Merenda a Katia Christine: «Stasera ristorante e cinema», e lei: «Purché non sia uno di quegli orribili polizieschi…»), mentre con i duetti molto “quotidiani” tra Massimo Vanni e Danilo Massi, i luogotenenti del commissario, viene il sospetto che si tentasse di gettare un ponte verso l’altra anima, quella quantitativamente limitata ma concettualmente centrale del film. A Milian non importa un fico entrare nella storia sul piano del poliziesco, tant’è che non esiste sequenza in cui Monnezza corra, picchi o spari.
La fenomenologia del Trucido e lo sbirro, in cui Marazzi Sergio poteva ancora passare per un eroe action, si è trasformata. L’azione del personaggio ora è tutta interiore, perché questo è l’unico piano che può davvero interessare Tomas, quello che “sente”, il fulcro dal quale emerge poi di necessità anche il suo “abito” esterno. Il Monnezza perde quindi, metaforicamente, quel poco di “gobba” che nel film di Lenzi ancora si portava appresso e guadagna la pienezza dell’individuazione. Si raddrizza e si compie, con una potenza tale che il ciclo collaterale di Giraldi non potrà fare a meno di venirne influenzato (nella prima delle Squadre che escono dopo il film di Massi, Squadra antitruffa, il processo è già esplicito). Milian va insomma ben oltre le necessità contingenti, che chiedono al Monnezza di far crollare i cinema con le fulminanti scurrilità romanesche che gli spettatori si aspettano da lui – sulle quali, peraltro, non c’è risparmio, da quando Jole Angelucci (parrucchiera di Tomas nella realtà) e consorte entrano alla Pernacchia, alla telefonata con il produttore frocio, fino a quel monumentale: «Mari’, m’hai rotto la fodera der cazzo!» che sigilla il film e che venne suggerito a Tomas da un elettricista della troupe –, ma crea un proprio alter-ego, in cui non solo fluisce il “verosimile” ma il “vero”: uno specchio che nel profondo lo riflette, perché riflette un mondo nel quale l’attore cubano era entrato come ospite e che ha finito per diventare non soltanto il “suo” mondo, ma il migliore dei mondi possibili.