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La mala ordina

1972
Titolo Originale:
La mala ordina
REGIA:
Fernando Di Leo
CAST:
Mario Adorf (Luca Canali)
Henry Silva (David Catania)
Woody Strode (Frank Webster)

Il nostro giudizio

La mala ordina è un film del 1972, diretto da Fernando di Leo.

Ordini dall’altro mondo, doveva intitolarsi all’inizio, prima che se ne trovasse quello definitivo, La mala ordina. L’altro mondo è l’America, da dove Cyril Cusack spedisce a Milano due killer che Quentin Tarantino, copierà è forse troppo ma avrà presenti nei due personaggi di Pulp Fiction, il bianco e il nero. Henry Silva e Wody Stroode: «Andate lì, bevete, date grosse mance, mettete i piedi sui tavoli, in Italia questo non lo sopportano», gli suggerisce Cusak, «perché in Italia hanno una concezione particolare dei delinquenti, se li immaginano proprio come voi». Di Leo sta dicendo che giocherà con certi stereotipi, che li prenderà per il culo e che la legge del cinema è anche questa. Quindi i due saranno esattamente killer americani in trasferta in Italia, faranno gli smargiassi e distribuiranno mazzi di dollari alle mignotte del parco Sempione caricando poi di botte i loro macrò. La manovra si richiede per far fuori un piccolo magnaccia interpretato da Mario Adorf, sulla cui testa quelli che contano hanno fatto ricadere la responsabilità di una grande fregatura a danno degli americani. Un capro espiatorio, la vittima sacrificale perfetta. Ma Luca Canali – questo è il suo nome – è come quei cani di paglia di cui parlava Lao Tse e che ispirarono il film di Peckinpah: uno buono, basso e mite, un piccolo magnaccia insignificante, che vive insieme a una delle zoccole che fa lavorare, e ha una moglie parrucchiera e una figlia piccola. Uno che non significa niente. Finché, a furia di provocarlo, il cane di paglia prende fuoco.

A Fernando di Leo interessa descrivere qualcosa di diverso da quel che aveva fatto con Milano calibro 9. Qui non c’era più il romanticismo nebbioso e disperato, non c’era più il battere dell’ora del destino, il progresso inarrestabile della fine che sta scritta fin dal principio e se è scritta è scritta. La mala ordina non è più noir filosofico ma diventa noir fisiognomico, antroposofico, studio di carattere, attenzione ambientale per la prosopopea, per i personaggi, per le facce, per le parole, per situazioni che racchiudono l’universo dei malavitosi. E poi per l’azione, anzi per la violenza, che assume le forme di una specie di trattato capitale sull’argomento. Quando il boss che ha fottuto Canali gli fa ammazzare moglie e figlia, il piccolo uomo di casino innesca una vendetta immediata che ha dell’incredibile considerando quello che in un normale poliziesco si sarebbe potuto fare in Italia in quel periodo, ma anche all’estero. Una scena di dieci minuti di durata, un’eternità, in cui l’uomo colpito negli affetti più cari diventa una belva, salta sul furgoncino dell’investitore, spacca il parabrezza a testate, segue il killer a piedi di corsa, lo raggiunge, lotta e alla fine, nello spiazzo del Luna Park che una volta dominava Milano, lo inchioda a un muro: letteralmente, ficcandogli un grosso chiodo nel cuore. Silenzio.

Quando il cinema di Di Leo se ne esce con questi scoppi improvvisi di violenza, il pubblico ammutolisce. Allora come ora. Non si può dire niente e va solo sperimentato nella visione. Tarantino è rimasto ammirato, anche se lui poi ha avuto il bisogno di metterci le chiacchiere, che Di Leo sapeva invece, in certi momenti, essere inutili. Un’altra situazione testimonia nella Mala ordina dell’essenzialità di Di Leo quando si tratta di arrivare al dunque ed è la scena nella segheria, quando Canali viene portato in un luogo defilato da un paio di uomini di Adolfo Celi (uno è Gilberto Galimberti, il maestro d’armi solito, l’altro è Omero Capanna, quello che in Milano calibro 9, all’inizio, sputava sul piccione che si era posato sulla sua spalla). Lo portano lì per farlo fuori, ma anziché ammazzarlo subito commettono l’errore di sfrucugliarlo, di fare i guappi e non calcolano che Canali, capita l’antifona, parta con gli schiaffi e con le testate, lasciandoli poi a terra. Scena spoglia e nuda: legno, polvere, strutture minime di una fabbrica, un telefono al muro che, alla fine di tutto, Canali sfascia con una capocciata. Ecco Di Leo.