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La misura del dubbio

2024
Titolo Originale:
Le Fil
REGIA:
Daniel Auteuil
CAST:
Daniel Auteuil (Jean Monier)
Grégory Gadebois (Nicolas Milik)
Sidse Babett Knudsen (Maître Annie Debret)

Il nostro giudizio

La misura del dubbio è un film del 2024, diretto da Daniel Auteuil.

Il titolo originale è Le Fil, il filo. Nel corso di un’indagine infatti si tira un filo, si prova a seguire il percorso che porta alla verità: ma a volte il filo si aggroviglia, perde linearità e si incarta su se stesso, conducendo da un’altra parte. È la premessa, metaforica ma non troppo, per entrare ne La misura del dubbio, il film diretto e interpretato da Daniel Auteuil nelle sale dal 19 settembre. La titolazione italiana sottolinea la natura di thriller processuale, legittimo, di courtroom direbbero gli inglesi, ma il film è molto di più e altro. Daniel Auteuil, attore gigantesco e impagabile, scaltro animale di scena, si innamora di un caso realmente avvenuto: un uomo accusato dell’omicidio della moglie, che si dichiara innocente ma va a processo, difeso da un avvocato che racconta la storia in prima persona. Il legale l’ha ricostruita in un libro sotto pseudonimo (Au guet-apens: Chroniques de la justice pénale ordinaire di Maître Mô – non tradotto in italiano), Auteuil la porta sullo schermo mettendosi in gioco in prima persona, alla terza esperienza di regia, le altre due non particolarmente significative.

Ecco quindi la storia: una sera Jean Monier (ovviamente Auteuil) arriva in questura come avvocato d’ufficio, c’è un uomo a nome Nicolas Milik (Grégory Gadebois) appena fermato per omicidio. Il delitto è maturato in ambienti umili, poveri, sottilmente disperati: l’uomo è padre di cinque figli, tre femmine e due maschi, la consorte è una nota ubriacona della zona che si era allontana da casa a seguito di una lite – come sempre – per dormire su una panchina. La donna viene ritrovata con la gola tagliata. Tutto convoglia verso il marito, forse stufo del suo alcolismo e deciso a farla finita; per giunta col migliore amico, un barista, proprio quella notte aveva discusso dell’opportunità di ucciderla. Brutta situazione. L’avvocato Monier però si convince dell’innocenza dell’uomo, perché di fatto non ci sono prove certe, solo una ricostruzione indiziaria dell’accusa che ipotizza un omicidio a due, gli amici che eliminano la moglie di uno… Ma è soprattutto il lato umano che conta: Jean parla con Nicolas, padre di famiglia che vuole rivedere i figli, con lui dialoga e si fida. Lo ritiene estraneo e si lancia in uno sfiancante lavoro per ottenere l’assoluzione, sino a sfibrarsi; come genere impone, Monier cerca risarcimento per un caso precedente, quindici anni prima, quando fece assolvere un assassino che poi colpì ancora. È insomma un uomo che lotta col proprio demone.

Il racconto vanta alcuni dardi al suo arco. Prima di tutto, è molto intelligente a svelare la storia in fieri, senza il solito riassunto dei fatti per imboccare lo spettatore; all’inizio non sappiamo nulla, scopriamo solo gradualmente cos’è successo, quali ipotesi sul tavolo, quali ricostruzioni vengono proposte. Poi c’è la prova attoriale, solida e potente, si è già detto del protagonista ma anche l’imputato (Gadebois) veste impeccabilmente il ruolo del sospetto, un omone dal fisico pesante e dal volto timido e dimesso, che chiama l’empatia ma in realtà risulta illeggibile, arduo decidere chi sia veramente. Senza dire troppo, la vera potenza del film, ciò che lo eleva dal mazzo del genere, sta però da un’altra parte e presto diventa chiara: il sottofondo filosofico. Nella figura dell’avvocato Monier, infatti, si ripone tutta la difficoltà profonda nel comprendere davvero la natura umana; perché se vogliamo capire chi siamo dobbiamo fare i conti con la porzione di incubo che ci compone, col lato indicibile e abissale. Nell’uomo c’è un pozzo di cui non si vede il fondo, sull’orlo si muovono le pedine che rischiano di precipitare: soprattutto quando ci si arrende al nero e si viene avvinti dalla manticora. La misura del dubbio è stato accostato da più parti ad Anatomia di una caduta, riflesso pavloviano per ogni processuale a venire, ma non sono d’accordo; sta invece nella stessa zona d’ombra de La notte del 12, de La promessa di Friedrich Dürrenmatt, cioè della lotta contro il caso assurdo e crudele, dell’oscurità umana come mistero senza soluzione.