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La moglie vergine

1975
Titolo Originale:
La moglie vergine
REGIA:
Franco Martinelli,Marino Girolami
CAST:
Carroll Baker
Edwige Fenech
Renzo Montagnani

Il nostro giudizio

Una Fenech di rara conturbanza, da addentare come un popone maturo, alle prese con una storia di impotenza…

Impotentia coeundi. La dicitura scientifica, a non sapere quale guaio fisico adombri, non possiede un suono così terrificante. La dicitura comune, quella del volgo, è invece tremenda, enfatizza una negazione, il segno meno e racchiude il senso di una condanna, configurandosi, insieme, quale marchio d’infamia e sberleffo: “Non tira”, “Non funziona”; “Non si rizza”, con tutte le possibili, immaginifiche e coloratissime varianti dialettali. L’uomo che “nun jie la fa’…” è figura che di quando in quando ricorre nel bis italiano degli anni Settanta, benché poi il fiume carsico dell’impotenza maschile emerga, quando emerge, prevalentemente nei territori della commedia, laddove (e poiché) il riso esorcizza e smitizza un problema che nell’epoca in cui Sidenafil o Levitra dovevano ancora essere scoperti, era un grosso problema, pressoché insormontabile se sommato alla vergogna di chi ne era portatore. Qualche film serio sull’argomento lo si è anche girato, tipo La seduzione coniugale: serio solo nel senso che non si ride o se si ride, si ride oggi per l’atteggiamento terroristico con cui l’impotenza maschile viene rappresentata: maledizione, orrore, malattia e finanche colpa, dalla quale ci si redime solo con la morte.

La moglie vergine gioca fin dal titolo sulla forza dell’ossimoro. Tanto più se la moglie in questione, illibata suo malgrado, è una Edwige Fenech di rara conturbanza: curvacea, con quelle carni lievemente pesanti e deliziosamente gonfie, da addentare come un popone maturo. E invece Ray Lovelock niente: in re calidissima friget, ghiaccia cioè in una situazione bollente, e tuffatosi in tutto quel ben di dio, l’ispirazione, beffa e smacco massimi, gli si ammoscia. Di fronte alla disgrazia di Giovannino, però, la sceneggiatura di Carlo Veo e del regista Marino Girolami, non batte una strada alla fin fine così risaputa. Se in un altro film (che so: ad esempio nel Buzzanca di Le inibizioni del dottor Gaudeni vedovo col complesso della buonanima, che pure segue la stessa procedura narrativa per cui il protagonista recupera grazie alla suocera piacente e compiacente la perduta carica virile) il deficit erettile è materia di barzelletta e di date di gomito tra quanti formano il coro che assiste alla tragedia, qui Lovelock (sorprendentemente plausibile in questa chiave) diventa oggetto di pietas e di empatia da parte dei comprimari. Girolami, e non si direbbe conoscendone il grezzo curriculum, firma una commedia dulcamara in qualche modo evoluta, progressista, inossequiosa degli stereotipi che il pubblico medio di questi film si attendeva in materia.

L’opinione comune vuole La moglie vergine marcatamente più spinto delle ginecommedie – dicitura idiota, coniata da Buttafava, ma tant’è, usiamola – del periodo. Sì e no. La Fenech faceva di norma nudità frontali totali senza problemi e anche in altre circostanze s’è fatta massaggiare le tette da una donna, con tentazione cripto lesbica. Le fanciulle di contorno ci danno magari più dentro, soprattutto Florence Barnes, quando si rotola tra le lenzuola con Michele Gammino senza curarsi punto dei malandrinissimi angoli d’incidenza dell’obiettivo. Quanto a Maria Rosaria Riuzzi, la starlette più simpatica dell’intero cinema bis italiano, tempera il piccante di certe situazioni nelle risate, come quando si ritrova con Gammino a far l’amore nella dispensa, tra salumi scambiati per membri e altre amenità del genere. Carrol Backer pone il dilemma se fosse davvero invecchiata tutto d’un botto rispetto ai gialli di qualche anno prima o se la conciassero così per esigenze sceniche – ma il seno erto che sfoggia alla fine depone per la seconda. Invece, il dialogo milanese curato da Enzo Jannacci e Beppe Viola funziona poco (pensiamo a cosa poteva in un film come Romanzo polare), non per debolezza in sé ma perché le battute mal si incollano ai personaggi interpretati da attori troppo poco nordici. Scena cult: la visita dal medico Gastone Pescucci che fa vedere a Lovelock un catalogo con dei culturisti, per capire: fosse per caso frocio…