La tana del serpente bianco
1988
Dall’autore de I diavoli, La tana del serpente bianco, una ghost-story tratta da Stoker con un giovane Hugh Grant: sesso, violenza e magia nera.
Chi cerca sangue di vergine è destinato a morire di sete. Già ai tempi di Dracula (quello di Paul Morrisey, comunque) le vergini erano merce di cui far tesoro perché inesorabilmente destinate all’estinzione. Di diverso avviso Ken Russell, che almeno una vergine l’ha trovata. Si tratta della giovane Eve (Chaterine Oxenberg), una tipa biondiccia e a ben guardare poco attraente che s’è però mantenuta virtuosa per onorare l’ara sacrificale. Il cerimoniere è la matura Lady Sylvia Marsh (Amanda Donohoe), una stangona mora e mascolina che per metà film gira seminuda per casa, per l’altra metà mostra denti da ofide e sputacchia veleno addosso alle ignare vittime. Sì, perché la misteriosa signora è in realtà una creatura diabolica, una mutante serpentiforme e seduttrice che, dopo il reperimento di un fossile appartenuto a un antico drago leggendario, si fa vessillifera di Satana. Che poi Satana sia un vermone pantagruelico e albino arrotolato nelle viscere della terra, tanto basta a sbolognare la solita tiritera sui sacrifici umani, il valore rigenerante del sangue, la necessità del dio di reincarnarsi nel mondo e via discorrendo.
Quello di Russell è indubbiamente un film pecoreccio, e proprio per questo meritevole di attenzione. Se già la testolina capelluta e occhialuta di Peter Capaldi nelle improbabili vesti di un archeologo la dice lunga, si attenda l’entrata in scena di un giovane Hugh Grant. Un damerino di origini nobiliari, rampollo di quella casata di lord che, secondo la tradizione del luogo, avrebbe sconfitto una prima volta l’immondo serpentone bianco del titolo. D’altronde le scene cult non mancano, a partire da quella in cui il già citato Grant taglia in due l’ossessa Imogene Claire, per poi guardare incuriosito le parti scisse che sussultano sul pavimento. Come quelle di un verme, appunto. Ma il delirio non finisce qui. La bella Lady Sylvia, prima di sedurre un boy-scout e morderlo sul pisello, scatarra su un crocifisso, scatenando le paranoie orgasmiche di Eve. La giovane tocca il frutto viscoso delle ghiandole salivari della nemica e questo basta a provocare il deliquio dei sensi. Le visioni prendono il sopravvento e la verginella si trova innanzi a Cristo in persona, crocifisso in un paesaggio lisergico alla David Lachapelle, tutto colori sgargianti e tonalità kitsch. Il Cristo martoriato è subito avvolto dall’edenico serpente che se lo pappa in un boccone, mentre centurioni romani frustano delle povere suore accorse a pregare, le denudano e le violentano in gruppo. Su tutto imperversa la bella strega che si lecca soddisfatta un colossale godemiché (lo stesso con cui s’assicura dell’effettiva verginità della Oxenberg). Russell però si sbizzarrisce e conserva la ciliegina per il finale: la dolce Eve, legata e appesa al soffitto di una sepolcrale caverna, è tentata dalla sensuale dark lady armata di un gigantesco, artigianale strap-on (per i neofiti un fallo finto che viene indossato direttamente dal partner).
Ci sono film talmente brutti di cui è meglio non parlare. Altri ancora, come questo, che fanno della bruttezza ragion d’essere e che alla fine non si possono nemmeno considerare tali. Se poi il referente letterario è Stoker, qualcuno potrebbe storcere il naso. Ma la bellezza è sempre questione di punti di vista.