La vestale di Satana
1971
La vestale di Satana è un film del 1971, diretto da Harry Kümel
Non c’è cosa più difficile che attualizzare un mito, un’icona. Di libri sulla contessa ungherese Erzsébet Bathory ne sono stati scritti un mucchio (su tutti quello di Valentine Penrose, The Blood Countess), e i film sull’argomento non sono da meno. Harry Kümel con La vestale di Satana trasfigura, però, l’archetipo, vivifica la leggenda, travalica contesti storici e stereotipi, mostrandoci la Bathory come mai la si era vista: la francese Delphine Seyrig, algida ed eterea da sembrare eterna, reminiscente Marlene Dietrich e le pellicole di Joseph von Sternberg, sofferente e viziosa al contempo. Kümel afferma di non essersi attenuto alla bibliografia lesbo-vampiresca, e in effetti echi di Le Fanu si rintracciano a stento; piuttosto, von Masoch: e Venus in furs Delphine lo è sul serio, in quanto versipelle per le tante mises sfoggiate, delle quali una ha piume sul collo, come una sposa lussuriosa e lussureggiante, alla Ernst, ferina a tal punto da irrompere nella vita di altri sposi, Stefan (John Karlen) e Valerie (Danielle Ouimet), insieme ma in fondo soli, che dalla Svizzera sostano in Belgio (a Ostenda) per poi raggiungere l’Inghilterra, così che lei possa conoscere finalmente la madre di lui. Ostenda è il non-luogo per eccellenza, interregno sospeso avvolto dalla nebbia, ghermito dal tormentato mare del Nord e bagnato da scrosci torrenziali. Cuore marcio ma pulsante della cittadina è il suo imponente albergo, vera cattedrale nel deserto (la hall è dell’Astoria a Bruxelles, mentre la dining room è quella del Palais des Thermes di Ostenda), punto di transito obbligato per anime erranti nel limbo dell’esistenza: Stefan e Valerie appunto, ma anche la Contessa e la sua segretaria Ilona (Andrea Rau), che Kümel stesso definisce prototipo della erotic innocence (con look derivante dai film di Pabst). Quattro anime, dunque: four is forever. In questa visione, tutto è simbolo, metafora, allegoria, contrasto, tutto evoca epifanie: se Delphine è in rosso lungo, Andrea è in nero corto, Valerie in bianco virginale, ma anche lei con piume, segnale di tentazione repressa, o incombente, Stefan in vestaglia rossa mentre del rosso ematico stilla dal suo collo durante la rasatura per poi stendersi sul talamo come un Cristo del Mantegna.
Per la città intanto si parla di vittime trovate dissanguate, tanto da spingere un commissario grottesco e sudato (Georges Jamin) a intraprendere delle indagini, più per attestare flebili tracce di umanità che per reale intento risolutorio: video, ergo sum. Stesso discorso per il portiere dell’albergo (Paul Esser), testimone oculare delle identiche sembianze della Contessa anni addietro. Kümel completa l’esigua schiera di personaggi secondari, paradossali, ma fondamentali, quando introduce la “madre di Stefan” in realtà un dandy decaduto (Fons Rademakers), incipriato e annoiato, con la passione per le orchidee. Perché Stefan celi la sua identità alla compagna e si serva di tale ambiguo figurante, è un mistero ordinario se paragonato alla temperie anticosmica che striscia nell’albergo, fulcro centrifugo e accentratore, ristrutturazione architettonica di altri “interni maledetti” come L’angelo sterminatore (El ángel exterminador, Luis Buñuel, 1962) e Gli invasati (The Haunting, Robert Wise, 1963). Il gioco delle coppie intanto procede da sé, benedetto da un’aura mesmerica, la stessa che guida lo sguardo di Stefan dal basso fino alla cima delle scale dove Ilona lo cattura, per rubargli l’anima, prima, e il piacere, poi, quello intensissimo e “anatomicamente impossibile”, come lo definisce Kümel, che rivendica anche la paternità del primo orgasmo maschile: ma la libido qui è virale, arreca lutto. Non si è più in quattro, non si è più per sempre. Three is an orgy. Intanto la Seyrig e la Ouimet, entambe bionde e in bianco, sigillano la propria unione con conturbanti giochi di mani, le unghie laccate di rosso della Contessa che l’appella «my little Edelweis». Quest’ultima rifiuta Stefan, ormai soggiogata dalla sua nuova compagna, dominatrix psichica che predispone “l’ultima cena” con candele nere, prima di suggere ai polsi dell’unico/ultimo uomo, moderno profeta “crocifisso” al suolo, ostacolo alla propria supremazia notturna. Supremazia immortalata dalla Contessa che si staglia su un’altura, ora sì con un look consapevolmente vampiresco, e allarga le braccia a mo’ di ali, come a legittimare la tirannide sull’altra. Restano solo due donne: two is for the women. L’inizio della fine.
Kümel ama definire La vestale di Satana un esercizio di stile, non un horror, e in effetti sia il decor curatissimo che le influenze pittoriche (ci sono anche la scuola fiamminga e Friedrich per il mare in burrasca) sono la marcia in più di La vestale di Satana. Più che il sex & blood reclamato dai produttori, il cineasta belga sorprende con un approccio postmoderno, avvalendosi della presenza magnetica della Seyrig e di un cast che pare recitare in stato di trance. Le location fanno il resto, veri e propri luoghi dello spirito, incorniciati da tramonti eterni e fotografati nel bel mezzo di un’estate che però sembra inverno perenne musicato dal clavicembalo neoclassico di Francois de Roubaix, il primissimo segnale della maestosità dell’opera, sin dai grevi titoli di testa. Le vampire di Kümel mostrano più fragilità che forza: non ci sono canini in bella mostra, la Seyrig pare spesso stanca della propria condizione, Ilona soffre il contatto con l’acqua ed entrambe l’impatto con le prime luci dell’alba. Aperture e dissolvenze in tono vermiglio scandiscono ritualmente un apparato mistico, sospeso, melanconico, in un climax che ha la sua vetta nel languore maudit della Contessa, nella sua struggente invocazione/supplica durante la fuga con l’amata e infine, sola, a scontare la propria genìa: one is for liberty, one is for the soul.