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L’aldilà

1980
Titolo Originale:
L'aldilà
REGIA:
Lucio Fulci
CAST:
Catriona MacColl (Liza Merril as Katherine MacColl)
David Warbeck (Dr. John McCabe) Cinzia Monreale
Emily (as Sarah Keller) Antoine Saint-John

Il nostro giudizio

L’aldilà è un film del 1980, diretto da Lucio Fulci.

Nel 1927, nell’hotel “Sette porte”, in Lousiana, un manipolo di paesani fa giustizia sommaria di Schweik, un pittore ritenuto uno stregone, massacrandolo, crocifiggendolo e ricoprendone di calce viva il corpo. Nel 1980 la giovane Liza Merril eredita l’albergo dove si compì l’omicidio e comincia a venire terrorizzata da strani fenomeni, che sembrerebbero prodursi proprio nella stanza occupata allora da Schweick… Sull’Aldilà è stato detto e scritto praticamente tutto. Il che vuol dire, andando poi a vedere bene, che non è stato detto o scritto sostanzialmente nulla. Ed è giusto così, poiché L’aldilà non accetta, insieme a pochissimi altri film, di essere ridotto nei ranghi di una recensione. È un film in cui vige la regola della “casa di tetrapak”, come è stata battezzata dallo sceneggiatore Dardano Sacchetti – quando ancora non era diventato stronzo – che lo scrisse pensando a un luogo maledetto, un albergo costruito su una delle bocche dell’inferno, dove lo spazio e il tempo cessano di esistere. Come un quadro di Escher: apri la porta del bagno e ti ritrovi in cucina; credi di entrare in soffitta e invece sei nei sotterranei; imbocchi delle scale che anziché farti salire, ti portano in basso. Lo stesso vale per il film in sé: qualunque recensione uno si accinga a scrivere, pensando di avere le idee chiare, finisce per arrivare laddove non avrebbe mai calcolato.

La disintegrazione della sceneggiatura, la mancanza di “progressione drammatica”, un cinema panico, selvaggio, dei sensi, completamente sganciato dalla logica, strutturato in eventi paratattici, senza subordinazioni – Lucio Fulci non ne fece mai mistero, del resto: lui usava l’aggettivo “artaudiano” per sintetizzare tutto questo – seguiva il modello di Inferno di Dario Argento, tanto che le corresponsioni “liturgiche” tra le due pellicole sono puntuali: dallo pseudobiblion sfogliato all’inizio che schiude i misteri (Il libro di Eibon, derivato dalla “mitologia di Cthulhu” e la cui invenzione risale a Clark Ashton Smith) fino ai fotogrammi fantasma intercalati al delitto di Eleonora Giorgi e di Gabriele Lavia in Inferno, cui L’aldilà replica con una corsa di Cinzia Monreale ripetuta, sacralmente, tre volte. Molto venne fagocitato e metabolizzato anche da Sentinel (1978), di Michael Winner, dove John Carradine era un prete con gli occhi bianchi custode della soglia dell’inferno. Ma un conto è rubare uno spunto, un altro è soffiare in un film lo Spirito, come fa Fulci. Che anche quando è costretto, nella parte finale, a utilizzare gli zombi, che non erano in sceneggiatura e vennero imposti dalle distribuzioni estere – perché, a quel punto, Fulci era “il regista dei morti viventi” -, sublima la necessità in virtù e risolve l’orrore nella bellezza: perché è bellissimo lo zombi grigio e calcinato del pittore maledetto; e sono bellissimi il viso della piccola Jill che esplode come un cocomero quando viene centrato da un proiettile, la testa di Al Cliver lardellata di schegge di vetro, i cadaveri squartati che balzano fuori dai sacchi di plastica nella morgue completamente bianca. Queste immagini sprigionano il fascino che emana un rettile esotico, pericolosissimo, gonfio di veleno, dai mille colori. Noi lo ammiriamo al di qua di una barriera sicura, al di qua del vetro, dello schermo. E siamo felici.

L’universo dell’Aldilà è una trappola, un posto dal quale, comunque si viva, ovunque si fugga, qualunque lotta si ingaggi, non si esce: il tempo e lo spazio si piegano nello schema dell’Eterno Ritorno: John e Liza si ritrovano sempre nella spirale di quella scala di ferro che scende nel buio, in un luogo “impossibile” («Impossible, Impossible!» esclama David due volte nella versione inglese), che diventerà budello nebbioso, che diventerà l’aldilà. La via d’uscita dal circolo vizioso della vita è il Mare delle tenebre, che promette un panorama egualmente neutro, un deserto calcificato bagnato da una luce madreperlacea (Massimo Lentini, lo scenografo, fece un lavoro di grande raffinatezza, partendo dai quadri di Fabrizio Clerici). Ma chissà perché, quella straordinaria visione finale ha in sé la disperazione e il suo contrario; il cielo nel quale John e Liza si annullano, dentro al quale spariscono, è il Nulla supremo e la suprema pace. Ciechi, perché là dove vanno, John e Liza, non c’è niente da vedere. Sull’ “artaudianità” dell’Aldilà ci sarebbe da scriverne un saggio: Fulci si invaghì della definizione, che – salvo errore – fu Alain Schlockoff, direttore dell’Ecran fantastique, a tirar fuori per primo, quando in quel di Parigi, al “Festival du Fantastique”, i francesi scoprivano le opere del “poeta del macabro”. Mentre in Italia si schifavano i suoi film come “bassa macelleria”. Noi saremmo arrivati dopo.